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  • Immagine del redattoreEmilio Mordini

AMORE, CONTAGIO E CONOSCENZA AL TEMPO DEL COVID

Aggiornamento: 24 ago 2022


Una recente sentenza di un tribunale distrettuale di Weimar ha stabilito l’incostituzionalità dei provvedimenti presi dal governo tedesco in tema di distanziamento sociale: un divieto generalizzato, quale quello contenuto nelle disposizioni anti-pandemiche, non rispetterebbe il diritto fondamentale dei cittadini al contatto fisico reciproco. Questa sentenza mi ha incuriosito perché menziona un tema che, come psicoanalista, mi riguarda da vicino: il diritto al contatto fisico.


Non saprei dire se il contatto fisico sia un diritto, so che è una necessità fondamentale. Neonati con seri disturbi congeniti della sensibilità tattile sopravvivono molto raramente e a prezzo di deficit gravissimi, tanto che le attese di vita di infanti privi di vista o udito o di entrambi sono di gran lunga migliori delle loro (1). A partire dagli studi di René Spitz (2) si sa che il cucciolo umano muore se non è manipolato per lunghi periodi. Le stesse condizioni negli adulti conducono a gravi situazioni psichiatriche (3). Quando i contatti fisici sono soltanto limitati, le persone tendono a sviluppare un quadro clinico detto di “inedia o fame tattile” (touch starvation o hunger) – in parte osservato anche durante l’epidemia di Ebola come conseguenza dell’isolamento fisico dei malati - che include l’arresto dello sviluppo psicofisico durante l’infanzia e un significativo aumento dell’aggressività negli adulti (4).


Al centro del concetto di “contatto fisico” c’è quello di tatto. Il tatto è il più strano dei sensi, infatti si può guardare senza essere visti, ascoltare senza essere uditi, e così via, ma non si può toccare senza essere toccati da ciò che si tocca e senza toccare noi stessi: “il tatto, che sembra inferiore agli altri sensi, è, allora, in qualche modo il primo, perché è in esso che si genera qualcosa come un soggetto, che nella vista e negli altri sensi è in qualche modo astrattamente presupposto. Noi abbiamo per la prima volta un’esperienza di noi stessi quando, toccando un altro corpo, tocchiamo insieme la nostra carne” (5). Jean-Luc Nancy, filosofo, amico e discepolo di Derrida, ha sostenuto che il tatto coincide con il corpo, anzi con la “carne”: tutto ciò che è incarnato tocca e può essere toccato. Il mistero del tatto è grande, secondo Nancy, perché coincide con quello dell’incarnazione di Dio (6). Seguendo la stessa linea di pensiero, Marie-Laure Veyron, docente dell’università di Montpellier, ha sostenuto che i Vangeli possono essere letti proprio anche come un’opera sulla ”carne”, il corpo e i contatti tra corpi (7). Non c’è dubbio che vi sia una qualche verità in queste affermazioni, non foss’altro perché la visione del mondo cristiano si scontra con il rigorismo morale della legge mosaica che dettava rigide regole di purità rispetto al corpo (si pensi soltanto a Gesù che toccava i lebbrosi, individui in una condizione estrema di impurità). Così, in questi tempi cupi e calamitosi in cui sembra che il distanziamento sociale potrebbe non essere una misura momentanea, ma invece assurgere a nuova normalità, vorrei riflettere con voi su tre famosi episodi evangelici di trasgressione delle norme sul contatto fisico.


Il primo episodio è quello della “Peccatrice pentita” o anche della “Cena a casa di Simone il fariseo”. Forse il titolo dirà poco al lettore ma, come accennerò al contenuto, la storia tornerà probabilmente alla mente di tutti. Si tratta di una narrazione che ha ispirato decine e decine di pittori di tutte le epoche: da Luca Signorelli a Tintoretto, Paolo Veronese, Bernardo Strozzi, Mattia Preti, Sebastiano Ricci e molti altri. Ho scelto come guida per il nostro breve excursus un’opera di Rubens conservata al museo dell’Ermitage. La storia è raccontata da Luca (Lc 7, 36-50). Gesù giunge a casa di un ricco fariseo, Simone, che lo ha invitato ad un banchetto. Una donna “peccatrice della città” – che la tradizione identificherà erroneamente con Maria Maddalena – si trova anche lei al banchetto e, in disparte, osserva Gesù in silenzio poi, chinatasi, inizia a lavargli i piedi, irrorandoli con le sue stesse lacrime ed unguenti profumati e asciugandoli con i suoi capelli. Simone, assistendo alla scena, indignato commenta «“Se costui fosse davvero un profeta saprebbe di quale genere è questa donna che lo tocca: è una peccatrice”. Gli dice allora Gesù: “Simone ho una cosa da dirti”. Ed egli: “Maestro, dì pure”». Questo è esattamente il momento fissato dal pennello di Rubens: nel lato destro della tela Gesù, illuminato in pieno volto, con un grande mantello rosso si rivolge a Simone e, con la mano aperta, fa cenno alla donna, che abbraccia e bacia teneramente i suoi piedi. Simone, così come tutti gli altri commensali, occupano invece il centro del quadro: le loro facce, gonfie e rubizze di vino e cibo, guardano con disappunto e scherno Gesù. Per capire il senso dell’episodio bisogna pensare che non soltanto era sconveniente che una donna, una prostituta, toccasse pubblicamente un uomo, ma per di più che l’intera scena è carica di una sensualità e sessualità del tutto inaccettabile nel contesto di una cena di pii farisei. La risposta di Gesù a Simone inizia con una parabola (che ometteremo) e poi continua: «Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e tu non m'hai dato l'acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio, lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non mi hai cosparso il capo di olio profumato, ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi. Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco». C’è in questo episodio raccontato dalla storia dell’arte un particolare tenerissimo: la donna fu rappresentata anche da Giotto e Botticelli proprio nello stesso gesto innamorato e dolce di accarezzare i piedi del Cristo con i propri capelli – quello ripreso da Rubens - ma sotto la croce.


Tatto, sessualità e amore sono uniti da stretti legami. Gran parte delle proibizioni di natura sessuale riguardano il toccare e la vicinanza fisica, anche quelle che concernono altri sensi rimandano metaforicamente sempre al tatto: si pensi, ad esempio, agli sguardi che esplorano il corpo, all’odore della pelle, ai sospiri e i suoni dei corpi durante l’amplesso. La differenza sessuale taglia come una lama affilata questo universo di carne separandolo in due mondi: maschi e femmine. Come nel mito platonico dell’androgino, gli esseri umani, fattisi per sempre due, si costruiscono attorno questa differenza che diventa la pietra d’angolo della civiltà umana, su cui si edificano cultura, politica, religione, pratiche sociali e identità. Il distanziamento sociale, quello oggi invocato per il COVID, è stato praticato per secoli (e lo è ancora in alcune aree culturali) tra uomini e donne. A maggior ironia della storia, la tanto vituperata mascherina per prevenire il contagio è stata preceduta da secoli di veli, chador e burka che coprivano, e coprono, volti e corpi femminili. Ma il tatto in qualche modo precede anche la differenza sessuale o, meglio, disegna un nuovo confine che la attraversa e la scompone. A metà del secolo scorso, alcuni psicologi e psicoanalisti cominciarono ad interessarsi della funzione del contatto interpersonale nel benessere psico-fisico degli individui. Studiando i bambini sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti, Anna Freud aveva notato come questi bambini, quando avevano potuto rimanere fisicamente in contatto tra loro, erano riusciti a crescere conservando uno stato pressoché normale di salute mentale. Nello stesso periodo uno psichiatra dell’infanzia, René Spitz, cominciò a studiare i neonati orfani che morivano senza causa apparente nei reparti di neonatologia, elaborando la teoria della cosiddetta “depressione anaclitica”, cioè una depressione profondissima generata dalla mancanza di contati fisici “amorosi”. Contemporaneamente, uno psichiatra e psicoanalista inglese, John Bowlby, aveva indagato i rapporti madre-neonato, avanzando l’ipotesi dell’importanza delle manipolazioni fisiche e del contatto epidermico nello sviluppo degli esseri umani. Fu però agli inizi degli anni 1960 che uno psicologo sperimentale statunitense, Harry Harlow, condusse l’esperimento cruciale. L’esperimento di Harlow durò tre anni, durante i quali egli isolò dalle madri sessanta cuccioli neonati di macacus rhesus (una specie di scimmiette caratterizzate da uno sviluppo psico-sociale simile a quello degli esseri umani). Tramite un biberon i cuccioli ricevettero tutti un’alimentazione completa, persino più ricca di quella materna, ma furono lasciati in completo isolamento sociale. I ricercatori notarono che questi cuccioli tendevano a sviluppare un grande attaccamento nei confronti dei pezzi di stoffa usati per foderare le loro gabbie (come avviene anche ai bambini, basti pensare alla famosa “coperta” di Linus, il personaggio dei fumetti). Sospettando che quest’attaccamento potesse avere un significato, Harlow ideò un esperimento semplice e geniale: costruì due “madri” artificiali, una madre fatta di fil di ferro e dotata di biberon da cui le scimmiette potessero alimentarsi e una madre il cui scheletro di fil ferro era invece ricoperto da un materiale morbido simile alla pelliccia delle scimmie. Attraverso una serie complessa di test, Harlow giunse ad una conclusione sorprendente: la necessità di un contatto tattile “affettuoso” superava persino quella di alimentarsi ed il suo soddisfacimento era fondamentale per lo sviluppo dei cuccioli e per la loro salute mentale. Harlow concluse che nei macacus rhesus esiste una speciale forma di benessere, che egli chiamò “benessere da contatto”, e che questa forma di benessere è un bisogno primario, quello che potremmo chiamare, in termini umani, “bisogno d’amore” (8).


Il secondo episodio di trasgressione (ma in realtà anche rispetto) del distanziamento fisico è contenuto in una parabola, forse la più nota dei Vangeli: la parabola del Buon Samaritano. La storia è stata rappresenta infinite volte nella storia della pittura, soprattutto nel periodo che va dal tardo Manierismo al Barocco (ad esempio, Veronese, Nicola Grassi, Jacopo da Ponte) ma anche in tempi più recenti (Delacroix, Patini) e Vincent Van Gogh. La storia è nota a tutti, vale comunque riassumerla brevemente. Lungo il percorso tra Gerico e Gerusalemme, un uomo è stato aggredito dai briganti, derubato e lasciato malconcio sul ciglio della strada: “Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite versandovi olio e vino; e poi caricatolo su una giumenta, lo portò ad una locanda e si prese cura di lui” (Lc 10, 31-35). La tela di Van Gogh fissa proprio questo momento. Al centro del quadro c’è un gruppo che si stacca dallo sfondo: il viandante ferito che è sollevato quasi di peso dal Samaritano per issarlo sulla giumenta. Il viandante si abbraccia al suo soccorritore, mentre questi si piega, quasi si contorce, per lo sforzo. Lo sfondo del quadro è composto da onde successive di colori dal marrone all’ocra, che descrivono i campi e la strada, e sprazzi di azzurro che riprendono i colori dei vestiti degli uomini ed accennano al cielo. Aguzzando la vista, lungo la strada si riconoscono di spalle due minuscole figurine dello stesso colore dello sfondo: sono evidentemente il sacerdote e il levita che si stanno allontanando. Questi erano due pie persone che con molta probabilità si dirigevano a Gerusalemme per i riti che si compivano al Tempio. Per partecipare a tali riti era necessario essere in uno stato di purezza, che comprendeva, tra altro, non aver toccato corpi impuri (morti, feriti, sangue). Se i due avessero soccorso il malcapitato, avrebbero perso la loro purezza rituale e quindi non avrebbero potuto partecipare alle cerimonie. In contrasto alla fisicità carnale degli altri personaggi, Van Gogh li rappresenta in modo evanescente, fantasmi quasi indistinguibili dalla strada che stanno percorrendo: non sono cattivi, sono soltanto due tapini convinti di essere nel giusto, la personificazione della banalità del male, ma questo male sfugge alla nostra osservazione perché è “normale”.


La malattia, invece, è sempre stata considerata – e lo è ancora nel nostro inconscio sociale – un’anomalia, un monstrum, e quindi una forma di impurità. Toccando un malato ci si “contagia” perché ciò che è impuro contamina: questa paura profonda non ha nulla a che vedere con le conoscenze razionali e scientifiche sulle malattie infettive, come dimostrano decine di esperimenti in cui si proponeva a persone sane di condividere oggetti o indossare vestiti appartenuti a persone morte di malattie non infettive come il cancro o altre malattie a forte impatto emotivo (9). “Contatto” e “contagio” hanno la stessa etimologia, il verbo latino “cumtingere” (toccare insieme) ma già in latino il termine “contagium” indicava una forma speciale di contatto che avveniva per influsso, cioè tramite qualcosa che colui che tocca trasmette a colui che è toccato. Non solo le malattie si trasmettono, però, in questo modo: il contagio è anche uno dei modi più filogeneticamente antichi attraverso cui gli esseri umani superano i confini che li individualizzano e diventano gruppo, tribù, massa. Attraverso il contagio mettiamo in comune germi e microrganismi (certo, pure quelli patogeni ma anche quelli indispensabili alla vita come virus e batteri del microbiota intestinale); sincronizziamo ed allineiamo tra noi i nostri sistemi immunitari ed endocrini (grazie, ad esempio, i feromoni); comunichiamo l’un l’altro - tramite messaggi suggestivi e subliminali – emozioni e comportamenti.



Il terzo episodio di cui vorrei parlare è quello dell’incredulità di Tommaso e dello straordinario quadro di Caravaggio esposto nella Bildergalerie di Postdam. L’episodio è ben noto (GV 20, 24-39): Gesù, risorto, è apparso ai suoi discepoli riuniti nella sala del cenacolo. Tommaso, uno dei dodici apostoli - uomo pratico, molto affezionato a Gesù ma fondamentalmente scettico - non era presente così, quando ascolta il racconto degli altri, non ci crede e dice loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò». Tommaso cerca un segno “tangibile” in senso letterale. “Il gesto di san Tommaso che accerta le piaghe di Cristo fa del toccare lo strumento di una conoscenza più sicura di quella fornita dalla vista. È ciò che trasmette il dipinto di Caravaggio attraverso la sua tecnica del chiaro-oscuro: su uno sfondo di buio assoluto, che anticipa in qualche modo lo sguardo che illumina il candore splendente del corpo di Cristo, il dito di Tommaso affonda nella piaga.” (10). In realtà le cose andranno in modo diverso: il risorto apparirà a Tommaso e gli dirà «Porgi qua il dito e guarda le mie mani; porgi la mano e mettila nel mio costato; e non essere incredulo, ma credente», ma, a differenza che nell’opera di Caravaggio, l’apostolo non affonderà il suo dito, invece pronunzierà in risposta – primo nei Vangeli – la formula solenne che attesta la divinità del Cristo “Ὁ κύριός μου καὶ ὁ θεός μου” «Signor mio e Dio mio!».


La storia di Tommaso insegna che tutta la conoscenza – anche quella del mistero e del trascendente che possiamo conoscere soltanto per speculum in aenigmata - nasce dal corpo. Per insegnare non è naturalmente sempre necessario toccare – anche se è preziosa la mano dell’insegnante che guida quella dell’alunno - molte volte è sufficiente che il corpo sia solo evocato. La presenza fisica può rimanere all’orizzonte ma è sempre cruciale. Il docente insegna con tutto il suo corpo: i gesti, le intonazioni, la postura, la mimica facciale, persino l’odore della pelle. Questa presenza non è rimpiazzabile dalla tecnologia, per quanto sofisticata (i). Lo stesso vale in senso inverso, anche la presenza dei discenti non può essere sostituita. Un maestro elementare, così come un professore universitario, devono poter percepire la presenza del loro “pubblico” con la stessa precisione ed intensità di un attore sulla scena o di un oratore sul palco. Proprio reagendo a questa presenza, istante per istante, si realizza quella reciprocità che è fondamentale per trasmettere non solo informazioni ma anche conoscenza. Il dialogo, di cui spesso si parla come strumento didattico, non richiede molte parole e non è fatto di lunghi discorsi: invece nasce da una contiguità fisica, da un reciproco comunicare attraverso, sguardi, gesti, silenzi, pause e, a volte, anche sbadigli.


Amore, contagio e conoscenza sono tre forme – forse le più importanti - che possono assumere i contatti fisici tra le persone: il distanziamento sociale le rende tutte e tre più difficoltose e in parte le impedisce, ne vale la pena per evitare la sofferenza della malattia (ammesso che il distanziamento vi riesca)? Alcuni diranno di sì, altri di no, io chiedo solo a tutti di non essere ipocriti, di non negare ciò che ciascuno sa: il COVID non giunge a ciel sereno; indipendentemente dalla pandemia, i contatti fisici nelle nostre società stavano già diventando sempre più complicati o fasulli. A volte ho persino il sospetto che il COVID sia soltanto giunto a realizzare una “politique générale d’extermination des êtres capables d’amour” (11) che era in incubazione da tempo. Prima che ci fosse la DAD, gli adolescenti trascorrevano già più ore sui social che in presenza dei loro coetanei; gli anziani morivano nelle RSA soli, senza una carezza, ben avanti che il virus ne facesse strage. La nostra è una società da tempo caratterizzata dall’ossessione per tutte le forme, anche larvate, di intrusione sessuale, persino di seduzione; dal falso rispetto per l’intimità, trasformata contemporaneamente in pornografia ed esibizionismo digitali; dallo sfaldarsi dei legami familiari; dall’espulsione dalla vita sociale di moribondi, gravi disabili, anziani fragili. Il distanziamento sociale era in corso ben prima dell’epidemia di COVID ma era mascherato dall’apparenza di una vita densa di “fisicità”, comprata a buon mercato sugli scaffali di un supermercato o su Amazon: massaggi, cure estetiche, ginnastiche dolci, sport di squadra, discoteche affollate all’inverosimile e spesso (con buona pace della psicoanalisi) anche rapporti sessuali usati come scusa per ricevere o dare un abbraccio e un po’ d’amore. La pandemia e il distanziamento sociale, arrestando bruscamente gran parte di queste attività, hanno forse soltanto svelato che l’imperatore era nudo.


BIBLIOGRAFIA 1) Montgomery, Marilyn J.; Whiddon, Melody A., 2011, "Is Touch Beyond Infancy Important for Children's Mental Health?" American Counseling Association https://www.counseling.org/.../2011-V-Online/Article_88.pdf

2) RA Spitz,1965. The first year of life: a psychoanalytic study of normal and deviant development of object relations. New York, International UP

3) Hertenstein M. J., Verkamp J., Kerestes A., Holmes R.. 2006, "The communicative functions of touch in humans, non-human primates and rats: A review and synthesis of the empirical research". Genetic, Social, and General Psychology Monographs. 132 (1): 5–94

4) Durkin, J., Jackson, D. and Usher, K., 2021, Touch in times of COVID‐19: Touch hunger hurts. J Clin Nurs, 30: e4-e5. https://doi.org/10.1111/jocn.15488

5) G.Agamben, Filosofia del contatto. Quodlibet, 5 gennaio 2021, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-filosofia-del...

6) J.P. Nancy, 1995, Corpus. Cronopio, Napoli

7) M.L. Veyron, 2013, Le toucher dans les Évangiles. Édition du Cerf, Paris

8) H F Harlow, R O Dodsworth, M K Harlow, 1965, Total social isolation in monkeys Proceedings of the National Academy of Sciences Jul 1965, 54 (1) 90 97; DOI: 10.1073/pnas.54.1.90

9) Caiozzo, A. ,2012, Les imaginaire du corps contaminé . I V. Adam, & L. Revol-Marzouk, La Contamination. Lieux symboliques et espaces imaginaires (s. 91-102). Paris, Garnier.

10) M.Augé, 2017, Saper Toccare. Mimesis, Milano, p.31

11) Tiqqun, 2001, Premiers matériaux pour une Théorie de la Jeune-Fille . Fayard, Paris, p. 110


(i) Non è forse lontano il momento che avremo a disposizione interfacce digitali in grado di mimare tutte le modalità sensoriali, alcune di esse già esistono e sono usate per assistere i disabili: sarà solo un precipitare collettivo in uno stato oniroide, simil allucinatorio.

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