Il termine “virus” viene dal latino e significa veleno, liquido velenoso. Oltre al veleno della malattia, molti commentatori hanno notato come questa epidemia stia spargendo altri veleni: un miasma sottile, fatto di paura, invidia sociale e rabbia, si è insinuato tra le persone, non meno pericoloso e pestilenziale del coronavirus. Sulle righe dei social ci si augura reciprocamente morti orribili soltanto perché non si concorda sull’interpretazione di una curva epidemiologica, agenti di polizia, vigili urbani e carabinieri multano con arrogante compiacimento chi non indossa correttamente la “mascherina”, i vicini si spiano a vicenda, pronti a denunciare alle autorità qualsiasi infrazione alla quarantena. È interessante notare come persino ora, che le norme di isolamento e chiusura sono state allentate, rimanga nell’aria e negli sguardi delle persone una qual certa atmosfera paranoica, di reciproco sospetto.
Come psicoanalista non mi sono mai fatto soverchie illusioni sulla bontà degli esseri umani e sono ben consapevole del fatto che se ciascuno fosse trattato secondo il proprio merito, nessuno scapperebbe alla frusta. Eppure, mi ha incuriosito assistere all’affiorare di così tanti e forti sentimenti negativi, spesso mascherati nel loro opposto (penso, ad esempio, ad un crudelissimo video in cui una dottoressa rianimatrice descriveva sadicamente la fine orribile dei suoi pazienti con il pretesto di convincere al rispetto della quarantena). Certo, la morte ha un suo torbido fascino e in questi mesi noi siamo stati tutti travolti da una comunicazione necrofila. La spiegazione mi sembra però insufficiente e generica. Credo, invece, che si debba cercare una ragione più specifica a questo incremento di “cattiveria” collettiva. Mi sembra che rabbia, paura e sospetti possano essere stati alimentati, e siano tuttora sostenuti, dalle misure di distanziamento sociale e dall’uso generalizzato di protezioni facciali (le “mascherine” o loro surrogati).
Nel dopoguerra, alcuni psicologi e psicoanalisti avevano cominciato ad interessarsi della funzione del contatto interpersonale nel benessere psico-fisico degli individui. Studiando i bambini sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti, Anna Freud aveva notato come questi bambini, quando erano stati lasciati in condizione di accudire l’uno all’altro, erano riusciti a conservare una sufficiente salute mentale, seppure allevati in condizioni estreme. René Spitz aveva studiato i neonati orfani che morivano senza causa apparente nei reparti di neonatologia, elaborando la teoria della cosiddetta “depressione anaclitica”, cioè una depressione profondissima generata dalla mancanza di contati umani e del volto della madre: questa depressione comportava un vero e proprio marasma psicofisico nei neonati, sino alla morte. Spitz aveva riscoperto quello che si sapeva sin dal XIII secolo grazie al famoso, terribile, esperimento condotto su cinquanta neonati per ordine dell’imperatore Federico II. Contemporaneamente, uno psichiatra e psicoanalista inglese, John Bowlby, aveva indagato i rapporti madre-neonato, avanzando l’ipotesi dell’importanza delle manipolazioni fisiche e del contato epidermico nello sviluppo degli esseri umani. Fu però nella metà degli anni cinquanta del secolo scorso che uno psicologo sperimentale statunitense, Harry Harlow, condusse un esperimento che divenne presto una pietra miliare nella storia della psicologia.
L’esperimento di Harlow durò tre anni, durante i quali egli isolò dalle madri sessanta cuccioli neonati di macacus rhesus (una specie di scimmiette caratterizzate da uno sviluppo psico-sociale simile a quello degli esseri umani). Tramite un biberon i cuccioli ricevettero tutti un’alimentazione completa, persino più ricca di quella materna, ma furono lasciati in completo isolamento sociale. I ricercatori notarono che questi cuccioli tendevano a sviluppare un grande attaccamento nei confronti dei pezzi di stoffa usati per foderare le loro gabbie (come avviene anche ai bambini, basti pensare alla famosa “coperta” di Linus, il personaggio dei fumetti). Sospettando che quest’attaccamento potesse avere un significato, Harlow ideò un esperimento semplice e geniale: costruì due “madri” artificiali, una madre fatta di fil di ferro e dotata di biberon da cui le scimmiette potessero alimentarsi e una madre il cui scheletro di fil ferro era invece ricoperto da un materiale morbido simile alla pelliccia delle scimmie. La seconda madre fu costruita in due versioni, una sprovvista e una provvista di biberon. Il primo e più famoso esperimento fu condotto confrontando i cuccioli con le due madri, quella in fil di ferro con biberon e quella di pelliccia ma senza biberon. I cuccioli furono dapprima spaventati, poi, abituandosi alla presenza dei fantocci, iniziarono ad alimentarsi dal biberon della madre in fil di ferro. Appena soddisfatta la fame, però, si attaccarono alla madre “morbida” e si rifiutarono di abbandonarla per qualsiasi ragione mostrando un particolare interesse per il suo volto. Posti successivamente davanti alla scelta tra le due madri, i cuccioli sceglievano invariabilmente la madre “morbida”, distaccandosi da lei solo per il tempo necessario ad alimentarsi. Alcuni cuccioli furono poi messi in compagnia della madre “morbida” dotata anche di biberon, mentre altri furono lasciati in isolamento. I ricercatori confrontarono le reazioni dei due gruppi ad un ambiente sconosciuto: mentre i cuccioli che erano stati con le madri di pezza si azzardavano ad esplorare l’ambiente, i cuccioli deprivati di ogni contatto tattile reagivano con paura e aggressività. Lo stesso avveniva se i cuccioli erano messi in una gabbia con altre scimmiette: i cuccioli deprivati reagivano con paura e rabbia nei confronti dei loro simili. In generale, risultò che la possibilità di manipolare un oggetto morbido, la madre di pezza, era una necessità primaria delle scimmiette. In assenza di contatti tattili “affettuosi”, i cuccioli sviluppavano reazioni abnormi di paura e aggressività. Diventati poi adulti continuavano a manifestare comportamenti profondamente disturbati, quali esplosioni di rabbia, aggressività sessuale verso i cuccioli e indifferenza sessuale verso gli adulti, isolamento sociale e forme di automutilazione e autolesionismo. Harlow concluse che nei macacus rhesus esiste una speciale forma di benessere, che egli chiamò “benessere da contatto”, e che questa forma di benessere è un bisogno primario, quello che potremmo chiamare, in termini umani, “bisogno d’amore”. La necessità di un contatto tattile “caldo” e di un rapporto visivo con un volto familiare sono – aggiunse Harlow – bisogni fondamentali quanto, e persino più, dell’esigenza di alimentarsi. Se questo bisogno è frustrato, si generano gravissime conseguenze psicofisiche (gli autori americani parlano di “skin hunger”, fame di pelle, per la deprivazione tattile). Questa idea è oggi un principio consolidato della psicologia. Tra l’altro – e abbastanza ironicamente - gli studi più recenti hanno dimostrato che una condizione di deprivazione sociale e di distanziamento fisico deprime il sistema immunitario e facilita lo sviluppo delle malattie infettive e neoplastiche.
So bene che estendere le ricerche di Harlow alla condizione creata dal distanziamento sociale e dall’uso di mascheramenti per il volto per prevenire il contagio sarebbe una semplificazione eccessiva. Certo, però, che una società in cui non ci si tocca e non ci si sorride è una società che diventa facilmente incline all’indifferenza, alla cattiveria, alla paura e all’egoismo. C’è un film bello e tremendo di qualche anno fa che tutti dovrebbero vedere in questo periodo di distanziamento sociale, “La teoria svedese dell’amore” del regista Erik Gandini.
Chi è interessato può leggere l’articolo in cui Harlow presentava i suoi risultati e seguire un filmato originale sugli esperimenti sui cuccioli di macacus rhesus.
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