Oggi, 10 di maggio, la Chiesa Cattolica ricorda Isidora la Stolta. Di lei si hanno solo pochi e leggendarie notizie. Fu monaca alla fine del terzo secolo in un monastero in Egitto, qui visse dedicandosi ai lavori più umili nelle cucine, vestita di stracci, mangiando per proprio conto, sino a cibarsi solo di acqua sporca, disprezzata ed isolata dalle consorelle e considerata da tutti un’idiota. Un giorno, però, un monaco asceta del deserto ebbe una visione in cui un angelo gli comandava di cercare una monaca con un cencio strappato in testa, perché costei era la più vicina alla passione del Cristo. Quando il monaco giunse al monastero alla ricerca di questa santa sconosciuta, le altre monache fecero di tutto per nascondere Isidora, ma, non appena il monaco la vide, avvertì di trovarsi dinanzi ad una santa e si inginocchiò chiedendone la benedizione. Isidora poi compì molti miracoli, ma la storia non termina come un’antica versione di Cenerentola, perché la santa, non sopportando la notorietà e per umiltà, abbandonò il monastero e si ritirò a vita eremitica.
Molti – anche se non tutti - sono in grado di accettare giudizi su sé stessi e, a volte, una persona è addirittura il più feroce critico di sé. Accettiamo di buon grado di considerarci ed essere considerati egoisti, irriconoscenti, avari, invidiosi e così via: molto pochi, se non nessuno, però accetta di essere stupido. Naturalmente può accadere, ad alcuni di sovente, di concludere al termine di qualche evento che lo ha coinvolto o di qualche scelta che ha compiuto “Ah, che stupido sono stato!” ma, appunto, nel momento in cui ciò accade, smette di essere stupido: “sono stato” - e se ne rammarica - ma ora che se ne accorge “non lo è più”. Molti poi, semplicemente, intendono con l’essere stupidi, l’essere ingenui o troppo fiduciosi negli altri. In tanti anni che faccio lo psicoanalista, ho ascoltato credo tutte le motivazioni possibili per intraprendere una cura ma solo in un caso, mi rammento bene, un giovanotto venne da me dicendomi “Dottore, vorrei curarmi perché temo di essere stupido”. Poi, dopo qualche seduta, ebbe il coraggio d parlare delle altre due paure che lo assillavano: quella di essere brutto e omosessuale. In effetti, quel ragazzo era tutte e tre le cose. Alla fine della cura aveva imparato a temere di meno l’omosessualità e a gestirla con meno angoscia (ebbe prima un fidanzato del suo stesso sesso, poi si sposò con una donna, ebbe figli e fu marito discretamente felice), la sua bruttezza fu in qualche modo rischiarata da una maggiore serenità d’animo, rimase però, senza possibilità di remissione, uno sciocco.
Quando parlo di stupidità o di sciocchezza non mi riferisco a quozienti mentali o simili amenità prive – secondo me - di ogni costrutto scientifico e nemmeno a forme vere e proprie di ritardo mentale, quanto alla mancanza di sapore, di sale: sciocco è il pane sciapo, quello che non ha sapore. Lo sciocco è appunto colui che non ha “sale in zucca”, non sa di nulla: quante persone sono oggi del tutto prive di sapore e di profumi. La mia è una definizione né medica né, tantomeno, psicoanalitica: è un’osservazione empirica, da psicologia di ogni giorno. Si obietterà che è una definizione superficiale: lo è, ma è pur vero che – ad onta di ogni altra considerazione – gli stupidi, le persone senza sapore, esistono.
La stupidità risiede in un “non capire” di tipo particolare, in un rifiuto a pensare a prescindere dalle proprie qualità intellettuali. Lo stupido non è colui che crede a tutto e a tutti, ma chi non crede a nulla e nessuno. Spesso i più stupidi sono proprio coloro che pensano di sé di essere astuti e scaltri, i più cinici, quelli del “a me non la si dà da bere!” Il vero stupido è sospettoso proprio perché teme sempre di essere preso per stupido.
C’è un racconto di I.B.Singer, lo scrittore yiddish che visse a New York e vinse il premio Nobel per la letteratura, che si intitola “Gimpel, lo sciocco”. È la storia di uno scemo del villaggio, un credulone che le beve tutte, a cui monelli si divertono a raccontare le panzane più incredibili, che la moglie inganna spudoratamente coprendo i propri tradimento con scuse del tutto improbabili. Gimpel sa di essere sciocco ma cosa può mai fare? È convinto che essere intelligente significhi non farsi ingannare ed è ciò che a lui proprio non riesce: alla fine cade sempre nelle trappole che gli tendono. Poi, un giorno, dopo l’ennesima beffa di cui è vittima, decide di abbandonare il villaggio e vagare per il mondo come povero viandante. Attraversa valli, città, paesi, conosce persone, ascolta storie e, più il tempo passa, più si accorge che nulla è davvero incredibile: tutto è già accaduto da qualche parte o, se non è accaduto, accadrà e, se non è né accaduto che né accadrà, è stato sognato da qualcuno o lo sarà un giorno. I bambini gli si accostano e gli chiedono “nonno, raccontaci una storia” e Gimpel racconta sereno e inventa senza più timore, perché sa che nulla davvero può essere inventato. Come Isidora la Stolta, anche Gimpel ha raggiunto la santità.
Che il Signore aiuti ciascuno di noi a diventare stolto.
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