Il termine “diagnosi” origina dal greco antico diagignōskein che significa letteralmente “conoscere attraverso, per mezzo di …”. La diagnosi è quindi una conoscenza che nasce attraverso l’interpretazione di segni. Tutti noi proviamo piacere ad essere diagnosticati, cioè riconosciuti: si pensi solo al fascino che i segni zodiacali esercitano persino sui più scettici.
Alcune diagnosi, però, spaventano: ad esempio le diagnosi mediche. Tra le diagnosi mediche un ruolo a parte spetta alle diagnosi di disturbi mentali. In generale sono ricercate dalle persone che ritengono di essere sane di mente (un po’ come una versione scientifica dei segni zodiacali) e sono invece temute da chi sospetta di avere un qualche serio disagio psicologico. Coloro che si rivolgono ad uno psichiatra o uno psicologo si dividono quindi in due gruppi: quelli che all'inizio del trattamento non richiedono una diagnosi, perché hanno paura di sentirsi dire che “sono matti”, e quelli, invece, che vogliono sapere con esattezza di cosa soffrono.
Psichiatri e psicologi, soprattutto se lavorano all'interno di strutture private o pubbliche, sono abituati a far diagnosi, non fosse altro per ragioni medico-legali (compilare statistiche, aggiornare cartelle cliniche, riempire moduli assicurativi e così via): non hanno, quindi, soverchia difficoltà ad usare il loro sapere diagnostico anche direttamente con i pazienti. Alcuni ricorrono a quei sostituti moderni degli oroscopi che sono i cosiddetti “test psicologici”. Si tratta spesso di una serie di questioni basate sul vecchio trucco del Dottor Purgone, il medico del “Malato Immaginario”: si chiede al paziente di che soffra e poi si riformula la sua risposta usando un gergo pseudoscientifico, all'epoca di Molière fatto di paroloni greci e latini, oggi, più spesso, inglesi. Alcuni test psicologici, i cosiddetti “test proiettivi”, cercano di essere più seri ma solo perché lasciano maggior spazio all'intuizione e all'intelligenza di chi li interpreta.
Con i pazienti che invece non richiedono una diagnosi, psichiatri e psicologi usano spesso la parola “depressione”. Si tratta di un parolina passe-partout, buona per ogni occasione, dalle condizioni deliranti più gravi sino a vere psicosi depressive o a gravi disturbi ossessivi. Quando un paziente, che è stato precedentemente in cura da colleghi non psicoanalisti, giunge al mio studio dicendo che gli è stata diagnosticata una depressione, mi attendo spesso il peggio. Non di rado, infatti, quando mi mostra le prescrizioni farmacologiche ricevute, queste sono tipiche di una qualche grave psicosi.
Gli psicoanalisti non amano molto le diagnosi delle malattie mentali e, se potessero, ne farebbero spesso a meno. Chi esercita la psicoanalisi sa bene che ogni diagnosi è anche un modo per distanziare da sé la propria condizione, per oggettivarla rendendola “esterna”. Poiché la psicoanalisi è un processo che dovrebbe portare, invece, una persona a rientrare in sé e riconoscere sé stessa, la richiesta di diagnosi rappresenta sempre una resistenza al trattamento.
Anche scientificamente, la diagnosi delle malattie mentali pone dubbi. Esistono condizioni diverse, che corrispondono a eterogenei quadri biochimici, disparate esperienze di vita e differenti predisposizioni genetiche. Eppure, il disagio mentale ha una sua specifica unitarietà che ci fa a volte domandare se non ci si trovi dinanzi ad una stessa malattia, multi-eziologica, che si può manifestare a diversi livelli di gravità e con dissimili manifestazioni esteriori ma che è, infine, espressione di un’identica patologia.
Alcuni psichiatri e psicologi, ad indirizzo più filosofico, hanno creduto di riconoscere questa patologia nella mancanza (e di conseguenza nella ricerca disordinata e spasmodica) di senso. L’assurdo, il nonsense, sono il gorgo in cui tutti noi temiamo sempre di venire risucchiati. Usiamo le distrazioni e le preoccupazioni della vita per non pensare troppo all'assurdità dell’esistenza, oppure ricorriamo a filosofie, religioni, ideologie, per rassicurarci contro di essa. Coloro che, per una miriade di ragioni, comprese cause genetiche e biochimiche, falliscono in entrambe le strategie, finirebbero per scivolare nel disagio mentale.
Personalmente, mi sento sempre a disagio davanti a queste teorie: da un lato mi affascinano e avverto che in qualche modo colgono il vero, dall'altro mi sembrano però vaghe e poco utili da un punto di vista clinico. Per di più rischiano di trasformare il medico o lo psicologo in una sorta di profeta o in un direttore spirituale laico, cosa quanto mai pericolosa per la libertà del paziente.
Gli antichi greci – sempre loro – usavano invece una parola molto più concreta telos, che significa "fine". Una vita si capisce dal suo telos, dicevano: da dove conduce, dai fini concreti che realizza. Non diversamente il Vangelo afferma “Dai loro frutti li riconoscerete” (Mt 7, 16). Così, piuttosto che ricercare un senso filosofico profondo, io credo, e cerco di farlo con i miei pazienti, che si debba con umiltà cercare di capire dove tendano a portarci gli intrecci della nostra esistenza. Noi non soffriamo perché siamo immersi nell'assurdo ma, al contrario, perché seguiamo fedelmente un copione, un testo teatrale con una sua precisa logica, di cui ignoriamo i contenuti, pur intuendone vagamente l’esistenza e sentendone l’interna costrizione. Più che alle cause efficienti – direbbe Aristotele - è a quelle finali che bisogna guardare per capire e curare i disturbi mentali.