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  • Immagine del redattoreEmilio Mordini

𝗘𝗦𝗦𝗘𝗥𝗘 𝗢 𝗔𝗩𝗘𝗥𝗘?


𝗖𝗼𝘀𝗮 𝘀𝗰𝗲𝗴𝗹𝗶? “𝗘𝘀𝘀𝗲𝗿𝗲” 𝗼 “𝗮𝘃𝗲𝗿𝗲”? 𝗧𝗼 𝗛𝗮𝘃𝗲 𝗼𝗿 𝘁𝗼 𝗕𝗲? Ogni giorno, da qualche parte, qualcuno si rivolge a qualcun altro con questa domanda. Dopo averla pronunziata, il provocatore fa di solito una pausa e fissa con occhietti astuti il volto del suo o dei suoi interlocutori: sa che l’argomento non ammette repliche. Infatti, persino il più avido dei banchieri dichiarerà di scegliere l' “essere” piuttosto che l' “avere”. Chi mai potrebbe preferire apertamente la volgarità del possesso alla nobiltà dell’essere?


𝗤𝘂𝗲𝘀𝘁𝗮 𝘀𝗰𝗶𝗮𝗴𝘂𝗿𝗮𝘁𝗮 𝗱𝗼𝗺𝗮𝗻𝗱𝗮 (𝗰𝗵𝗲 𝗼𝗯𝗯𝗹𝗶𝗴𝗮 𝗰𝗶𝗮𝘀𝗰𝘂𝗻𝗼 𝗮 𝗱𝗶𝘃𝗲𝗻𝘁𝗮𝗿𝗲 𝗶𝗽𝗼𝗰𝗿𝗶𝘁𝗮) nasce probabilmente dal titolo di un’opera del 1976 di Eric Fromm, un 𝘣𝘰𝘯𝘩𝘰𝘮𝘮𝘦 tedesco, inventore tra l'altro della psicoanalisi umanista. Il libro - che metteva insieme Buddha, Gesù, Meister Eckhart, Mahatma Gandhi, Karl Marx e Carl Gustav Jung – era un atto di accusa, in linea con la cultura di quegli anni, contro il materialismo e il consumismo.


𝗢𝗴𝗴𝗶, 𝗽𝗿𝗼𝗯𝗮𝗯𝗶𝗹𝗺𝗲𝗻𝘁𝗲 𝗽𝗼𝗰𝗵𝗶 𝗿𝗶𝗰𝗼𝗿𝗱𝗮𝗻𝗼 𝗙𝗿𝗼𝗺𝗺 𝗲 𝗮𝗻𝗰𝗼𝗿 𝗺𝗲𝗻𝗼 𝗵𝗮𝗻𝗻𝗼 𝗹𝗲𝘁𝘁𝗼 “𝗧𝗼 𝗛𝗮𝘃𝗲 𝗼𝗿 𝘁𝗼 𝗕𝗲?”. Quel titolo, però, così azzeccato e intuitivo (ma non originale: lo aveva già usato vent’anni prima Gabriel Marcel), si è piano, piano trasformato in uno tra i luoghi comuni più radicati e abusati. Nel nostro paese, il “cristiano-buddismo-socialismo” di Fromm si è inopinatamente coniugato con la retorica del saper vivere “italiano” e con certo pauperismo cattolico di “sinistra”. Due mondi diversi ma uniti dalla comune convinzione che “povero è bello”, proprio perché la povertà permette di prestare attenzione a ciò che si “è” piuttosto che a ciò che (non) si “ha” (si noti, però, che questi laudatori della povertà assai di rado sono personalmente poveri).


𝗜 𝘀𝗼𝘀𝘁𝗲𝗻𝗶𝘁𝗼𝗿𝗶 𝗱𝗲𝗹𝗹’𝗮𝗹𝘁𝗲𝗿𝗻𝗮𝘁𝗶𝘃𝗮 𝘁𝗿𝗮 𝗮𝘃𝗲𝗿𝗲 𝗲𝗱 𝗲𝘀𝘀𝗲𝗿𝗲 𝗻𝗼𝗻 𝘀𝗶 𝗿𝗲𝗻𝗱𝗼𝗻𝗼 𝗰𝗼𝗻𝘁𝗼, 𝗽𝗲𝗿𝗼̀, 𝗱𝗶 𝗰𝗼𝗹𝘁𝗶𝘃𝗮𝗿𝗲 𝘂𝗻’𝗶𝗹𝗹𝘂𝘀𝗶𝗼𝗻𝗲: cosa vuole infatti dire scegliere di “essere”? Nelle intenzioni di Fromm e dei suoi epigoni significa dare valore alle cose vere della vita, agli aspetti più spirituali e nobili dell’esistenza, alla nostra natura più profonda. L’alternativa sarebbe, quindi, scegliere tra le qualità che ci rendono realmente umani e il possesso di volgari beni materiali. Ma un vivente “è” mai davvero? In altre parole: qualcuno può mai dire di sé stesso “io sono”? Gli attributi e le qualità che in questo momento ci costituiscono coincidono con la nostra essenza di individui?


𝗜 𝘃𝗶𝘃𝗲𝗻𝘁𝗶 𝗰𝗮𝗺𝗯𝗶𝗮𝗻𝗼 𝗲 𝘀𝗶 𝘁𝗿𝗮𝘀𝗳𝗼𝗿𝗺𝗮𝗻𝗼 𝗻𝗲𝗹 𝘁𝗲𝗺𝗽𝗼, 𝗻𝗲𝘀𝘀𝘂𝗻𝗮 𝗾𝘂𝗮𝗹𝗶𝘁𝗮̀ 𝗲̀ 𝗽𝗲𝗿𝗺𝗮𝗻𝗲𝗻𝘁𝗲 𝗲𝗱 𝗲𝘀𝘀𝗲𝗻𝘇𝗶𝗮𝗹𝗲, tutto ciò che siamo è contingente. Questa affermazione può significare due cose: o ciascuno di noi è in realtà un’illusoria confederazione di esseri che mutano di istante in istante (grossomodo, quello che pensava un filosofo inglese del Seicento, David Hume) oppure esiste - seppure difficile da dimostrare - un individuo che possiede (ma non "è") le caratteristiche mutevoli attraverso cui viene qui e ora individuato.


𝗣𝗼𝗰𝗼 𝗶𝗺𝗽𝗼𝗿𝘁𝗮 𝗾𝘂𝗮𝗹𝗲 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗲 𝗱𝘂𝗲 𝗶𝗽𝗼𝘁𝗲𝘀𝗶 𝘀𝗶𝗮 𝘃𝗲𝗿𝗮 𝗽𝗲𝗿𝗰𝗵𝗲́, 𝗻𝗲𝗶 𝗳𝗮𝘁𝘁𝗶, tutti (sospetto persino i monaci buddisti di qualche sperduto monastero tibetano) pensano a sé stessi come esseri reali e non come illusioni. Noi ci percepiamo come individui unitari che posseggono una serie di qualità e caratteristiche alla stessa maniera in cui posseggono gli oggetti. Detto in modo un po’ brutale: la maniera in cui le persone vanno orgogliose di avere gli occhi verdi non è così diversa da quella con cui si vantano di possedere un nuovo modello di automobile; chi si pavoneggia delle sue virtù lo fa spesso con lo stesso spirito di chi si gloria dei suoi successi sul lavoro o del denaro che ha guadagnato; e così via.


𝗖𝗵𝗶 𝗲̀ “𝗘𝗺𝗶𝗹𝗶𝗼 𝗠𝗼𝗿𝗱𝗶𝗻𝗶”? 𝗟𝗼 𝘀𝗮 𝘀𝗼𝗹𝗼 𝗜𝗱𝗱𝗶𝗼 𝗲 𝗻𝗼𝗻 𝗰𝗼𝗺𝗲 𝗺𝗼𝗱𝗼 𝗱𝗶 𝗱𝗶𝗿𝗲 𝗺𝗮 𝗰𝗼𝗺𝗲 𝗱𝗮𝘁𝗼 𝗱𝗶 𝗳𝗮𝘁𝘁𝗼. Posso essere un individuo unico e originale, che esiste al di là dei fatti contingenti, solo se sono stato e sono pensato in quanto tale da un essere trascendente, che non è generato e non muore (in altre parole: se ho un fondamento necessario fuori da me). Ma questa è metafisica... Nei fatti, per quanto mi riguarda, io non “sono”: io “ho”.


𝗛𝗼 𝗹𝗮 𝘃𝗶𝘁𝗮, 𝗶𝗻𝗻𝗮𝗻𝘇𝗶𝘁𝘂𝘁𝘁𝗼, 𝗲 𝗽𝗼𝗶 𝘂𝗻’𝗶𝗻𝗳𝗶𝗻𝗶𝘁𝗮̀ 𝗱𝗶 𝗮𝗹𝘁𝗿𝗲 𝗰𝗼𝘀𝗲: un paio di scarpe ai piedi, un nome, un maglione che indosso, un computer su cui scrivo, due occhi per vedere, tanti libri sulla scrivania, una bicicletta e così via. Io non “sono” in senso assoluto perché cambio nel tempo e con il tempo, ma “ho” tutto quello che permette agli altri di riconoscermi e a me di vivere. Da dove mi viene ciò che ho e in continuazione perdo e riacquisto? Non lo so, so solo che mi è stato dato in prestito e che sarò chiamato prima o poi a restituirlo. Le scarpe si usureranno, il mio nome scomparirà anche dagli uffici dell’anagrafe; il maglione diventerà liso, il computer obsoleto e la vista mi si affievolirà; i libri si sfalderanno e la bicicletta sarà rubata; stanotte stessa, magari, dovrò ridare indietro anche la vita.


« 𝘼𝙪 𝙫𝙤𝙡𝙚𝙪𝙧 ! 𝙖𝙪 𝙫𝙤𝙡𝙚𝙪𝙧 ! 𝙖̀ 𝙡’𝙖𝙨𝙨𝙖𝙨𝙨𝙞𝙣 ! 𝙖𝙪 𝙢𝙚𝙪𝙧𝙩𝙧𝙞𝙚𝙧 ! 𝙅𝙪𝙨𝙩𝙞𝙘𝙚, 𝙟𝙪𝙨𝙩𝙚 𝙘𝙞𝙚𝙡 ! 𝙅𝙚 𝙨𝙪𝙞𝙨 𝙥𝙚𝙧𝙙𝙪, 𝙟𝙚 𝙨𝙪𝙞𝙨 𝙖𝙨𝙨𝙖𝙨𝙨𝙞𝙣𝙚́ ; 𝙤𝙣 𝙢’𝙖 𝙘𝙤𝙪𝙥𝙚́ 𝙡𝙖 𝙜𝙤𝙧𝙜𝙚 : 𝙤𝙣 𝙢’𝙖 𝙙𝙚́𝙧𝙤𝙗𝙚́ 𝙢𝙤𝙣 𝙖𝙧𝙜𝙚𝙣𝙩 » (L’Avaro di Molière, Atto IV, scena 7, Monologo di Arpagone). Tutti coloro che si illudono di poter scegliere tra essere e avere sono come il povero Arpagone: preferiscono “essere” perché l’idea di “avere” fa loro troppo temere di essere derubati e, comunque, di dover un giorno rendere ciò che hanno avuto in prestito.


𝗖𝗼𝘀𝗶̀, 𝗶𝗻𝘃𝗲𝗰𝗲 𝗰𝗵𝗲 𝗱𝗶𝘀𝗽𝗿𝗲𝘇𝘇𝗮𝗿𝗲, 𝗶𝗻 𝗻𝗼𝗺𝗲 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗽𝗿𝗼𝗳𝗼𝗻𝗱𝗶𝘁𝗮̀ 𝗱𝗲𝗹𝗹'𝗲𝘀𝘀𝗲𝗿𝗲, la superficialità di ciò che abbiamo, impariamo a usarne con riconoscenza, amore e avvedutezza: impariamo la lezione da quell’ amministratore disonesto (Lc 16,1-9) che ancora oggi tanto spesso scandalizza coloro che “𝘱𝘳𝘦𝘧𝘦𝘳𝘪𝘴𝘤𝘰𝘯𝘰 𝘦𝘴𝘴𝘦𝘳𝘦 𝘢𝘯𝘻𝘪𝘤𝘩𝘦́ 𝘢𝘷𝘦𝘳𝘦”.



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