IL SABOTATORE INTERNO
- Emilio Mordini
- 2 ago
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𝗥𝗶𝗰𝗼𝗿𝗱𝗮𝘁𝗲 𝗶 𝗽𝗲𝘀𝗮𝗻𝘁𝗶 𝘇𝗼𝗰𝗰𝗼𝗹𝗶 𝗱𝗶 𝗹𝗲𝗴𝗻𝗼 𝗰𝗵𝗲 𝗰𝗮𝗹𝘇𝗮𝘃𝗮𝗻𝗼 𝗶 𝗰𝗼𝗻𝘁𝗮𝗱𝗶𝗻𝗶 𝗱𝗶 𝗩𝗮𝗻 𝗚𝗼𝗴𝗵?𝗟𝗲 𝘀𝘁𝗲𝘀𝘀𝗲 𝗰𝗮𝗹𝘇𝗮𝘁𝘂𝗿𝗲 𝗲𝗿𝗮𝗻𝗼 𝘂𝘀𝗮𝘁𝗲 𝗱𝗮𝗴𝗹𝗶 𝗼𝗽𝗲𝗿𝗮𝗶 𝗰𝗵𝗲 𝗹𝗮𝘃𝗼𝗿𝗮𝘃𝗮𝗻𝗼 𝗻𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗻𝗮𝘀𝗰𝗲𝗻𝘁𝗲 𝗶𝗻𝗱𝘂𝘀𝘁𝗿𝗶𝗮. Era anche il tempo delle prime ribellioni contro l’automazione e le condizioni di lavoro in fabbrica: la rabbia si esprimeva spesso gettando negli ingranaggi delle macchine quei pesanti zoccoli, che si incastravano nei meccanismi e li danneggiavano irreversibilmente. Quegli zoccoli, che si chiamavano in francese 𝘴𝘢𝘣𝘰𝘵, diedero il nome a una protesta che fu detta, appunto, “sabotaggio”. Sono passati più di due secoli e noi continuiamo a usare sabotaggio e sabotatore per indicare azioni, portate a termine per lo più di nascosto, per danneggiare beni, attrezzature e bloccare attività.
𝗔𝗹𝗹'𝗶𝗻𝗶𝘇𝗶𝗼 𝗱𝗲𝗴𝗹𝗶 𝗮𝗻𝗻𝗶 𝟭𝟵𝟮𝟬, 𝗹𝗼 𝗽𝘀𝗶𝗰𝗼𝗮𝗻𝗮𝗹𝗶𝘀𝘁𝗮 𝘀𝗰𝗼𝘇𝘇𝗲𝘀𝗲 𝗥𝗼𝗻𝗮𝗹𝗱 𝗙𝗮𝗶𝗿𝗯𝗮𝗶𝗿𝗻 𝗰𝗼𝗻𝗶𝗼̀ 𝗹’𝗲𝘀𝗽𝗿𝗲𝘀𝘀𝗶𝗼𝗻𝗲 “𝘀𝗮𝗯𝗼𝘁𝗮𝘁𝗼𝗿𝗲 𝗶𝗻𝘁𝗲𝗿𝗻𝗼” 𝗿𝗶𝗳𝗲𝗿𝗲𝗻𝗱𝗼𝘀𝗶 𝗮 𝘂𝗻𝗮 𝗽𝗮𝗿𝘁𝗲 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗺𝗲𝗻𝘁𝗲 che, a suo dire, aveva come obiettivo sabotare i nostri progetti e piani. In effetti è esperienza comune il poter commettere errori che a posteriori ci appaiono incomprensibili o essere colpiti da improvvise e inspiegabili inibizioni che fanno fallire un nostro progetto. Non si tratta di semplici atti mancati, o lapsus, di cui aveva già parlato Freud. Come quelli, anche questi atti di autosabotaggio sono indubbiamente l’espressione di forze che albergano nel nostro inconscio ma, a differenza di lapsus e atti mancati, l’autosabotaggio sembra seguire una regia più precisa: in altre parole, se ne intuisce, pur misteriosa, una finalità complessiva, un obiettivo finale.
𝗔 𝘃𝗼𝗹𝘁𝗲 𝗿𝗶𝗴𝘂𝗮𝗿𝗱𝗮𝗻𝗼 𝗹𝗲 𝗻𝗼𝘀𝘁𝗿𝗲 𝘀𝗰𝗲𝗹𝘁𝗲 𝗱𝗶 𝘃𝗶𝘁𝗮: 𝗾𝘂𝗮𝗻𝘁𝗲 𝗽𝗲𝗿𝘀𝗼𝗻𝗲 𝘀𝗼𝗻𝗼 𝘀𝗶𝗰𝘂𝗿𝗲 𝗰𝗵𝗲 𝗹𝗮 𝗹𝗼𝗿𝗼 𝘃𝗼𝗰𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝘀𝗶𝗮 𝗱𝗲𝗱𝗶𝗰𝗮𝗿𝘀𝗶 𝗮 𝘂𝗻𝗮 𝘁𝗿𝗮𝗻𝗾𝘂𝗶𝗹𝗹𝗮 𝗲𝘀𝗶𝘀𝘁𝗲𝗻𝘇𝗮 di studio e, invece, per una ragione o per l’altra, gli accadimenti e le scelte sbagliate le spingono sempre in direzione contraria? Altre volte si tratta di quelle poche ma preziose soddisfazioni che la vita offre: un’amicizia sincera, un amore da tempo cercato, un riconoscimento professionale meritato; ma, anche qui, all’ultimo istante, un ritardo insensato, una parola che si ferma nella gola o, al contrario, che esce di bocca inopinata, giungono a rovinare tutto. Non sempre questi autosabotaggi producono veri disastri (è facile che, nell'umiliazione dell’istante, il malato enfatizzi le conseguenze dei propri errori) ma sempre lasciano dietro di sé una sensazione di frustrazione che diventa, di giorno in giorno, sempre più difficile da sopportare. Come darsi pace di fronte all’idea di essere i sabotatori di sé stessi, i principali artefici del fallimento di ciò che più ci stava a cuore?
𝗟𝗲 𝗼𝗿𝗶𝗴𝗶𝗻𝗶 𝗱𝗲𝗹 “𝘀𝗮𝗯𝗼𝘁𝗮𝘁𝗼𝗿𝗲” 𝗶𝗻𝘁𝗲𝗿𝗻𝗼 𝘀𝗶 𝗽𝗲𝗿𝗱𝗼𝗻𝗼 𝗻𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗻𝗼𝘀𝘁𝗿𝗮 𝗽𝗿𝗶𝗺𝗶𝘀𝘀𝗶𝗺𝗮 𝗶𝗻𝗳𝗮𝗻𝘇𝗶𝗮, 𝗾𝘂𝗮𝗻𝗱𝗼 𝗶𝗹 𝗻𝗲𝗼𝗻𝗮𝘁𝗼 𝗲 𝗶𝗹 𝗯𝗮𝗺𝗯𝗶𝗻𝗼 𝗱𝗶 𝗽𝗼𝗰𝗵𝗶 𝗺𝗲𝘀𝗶 iniziano a cercare di mettere ordine nel caos di emozioni e sentimenti, positivi e negativi, che li attraversano. Capace di attimi straordinari di gioia e felicità e di altrettanto profondi momenti di rabbia e disperazione, il bebè deve imparare a governare non solo le proprie reazioni ma a fronteggiare anche quelle degli adulti, per lui a volte del tutto imprevedibili e incomprensibili. Fairbairn, e come lui molti altri psicoanalisti, erano convinti che la prima necessità del bambino fosse mettere ordine nei propri sentimenti, separare le tenebre dalla luce, il male dal bene.
𝗔𝗻𝗰𝗵𝗲 𝘀𝗲 𝗶 𝗴𝗲𝗻𝗶𝘁𝗼𝗿𝗶 𝗮𝗺𝗮𝗻𝗼 𝗶𝗹 𝗯𝗮𝗺𝗯𝗶𝗻𝗼, 𝗲̀ 𝗾𝘂𝗮𝘀𝗶 𝗶𝗺𝗽𝗼𝘀𝘀𝗶𝗯𝗶𝗹𝗲 𝗰𝗵𝗲 𝗶𝗹 𝗽𝗶𝗰𝗰𝗼𝗹𝗼 𝗻𝗼𝗻 𝘀𝗶 𝘀𝗲𝗻𝘁𝗮 𝗺𝗮𝗶 𝗶𝗻𝗴𝗶𝘂𝘀𝘁𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗲 𝗽𝘂𝗻𝗶𝘁𝗼, 𝗰𝗼𝘀𝘁𝗿𝗲𝘁𝘁𝗼 𝗮𝗱 𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗶 𝗰𝗵𝗲 𝗻𝗼𝗻 𝗰𝗼𝗺𝗽𝗿𝗲𝗻𝗱𝗲, trascurato, trattato con freddezza, svalutato. Il bambino ha, però, bisogno di ritenersi al sicuro, e la sua sicurezza nasce solo dal pensare che i genitori (o, comunque, chi si prende cura di lui) gli vogliano bene e siano persone buone. Così, secondo Fairbairn, quando un bambino ha una relazione troppo insoddisfacente con i genitori, tende a sentirsi lui stesso “cattivo” per poter continuare invece a vedere “buoni” i genitori.
𝗤𝘂𝗲𝘀𝘁𝗶 𝗯𝗮𝗺𝗯𝗶𝗻𝗶 𝘀𝗼𝗻𝗼 “𝗽𝗶𝗰𝗰𝗼𝗹𝗶 𝗮𝗴𝗻𝗲𝗹𝗹𝗶 𝗱𝗶 𝗗𝗶𝗼, 𝗰𝗵𝗲 𝗽𝗿𝗲𝗻𝗱𝗼𝗻𝗼 𝘀𝘂 𝗱𝗶 𝘀𝗲́ 𝗶 𝗽𝗲𝗰𝗰𝗮𝘁𝗶 𝗱𝗲𝗹 𝗺𝗼𝗻𝗱𝗼”: salvano l’immagine interiore dei genitori, convincendosi di essere loro il problema, la persona cattiva che rende difficile la vita familiare. I “genitori cattivi”, però non scompaiono veramente dalla mente e dal ricordo ma rimangono nella memoria e nelle emozioni del bambino. I loro giudizi svalutanti, la loro freddezza e distanza emotiva, la loro incapacità a esprimere affetti diventano una parte della personalità del bambino, si trasformano in qualcosa che il piccolo pensa di sé stesso. Nasce così, secondo Fairbairn, il “sabotatore interno”: una parte di sé che ha fatto propri i messaggi negativi ricevuti, con lo scopo di salvare un’immagine positiva (o, perlomeno, non troppo negativa) dei genitori.
𝗔𝗹𝗰𝘂𝗻𝗶 𝗮𝘀𝗽𝗲𝘁𝘁𝗶 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝘁𝗲𝗼𝗿𝗶𝗮 𝗱𝗶 𝗙𝗮𝗶𝗿𝗯𝗮𝗶𝗿𝗻 𝗻𝗼𝗻 𝘀𝗼𝗻𝗼 𝗱𝗲𝗹 𝘁𝘂𝘁𝘁𝗼 𝗰𝗼𝗻𝗱𝗶𝘃𝗶𝘀𝗶𝗯𝗶𝗹𝗶, 𝗺𝗮 𝗻𝗼𝗻 𝗲̀ 𝗾𝘂𝗶 𝗻𝗲́ 𝗹𝗮 𝘀𝗲𝗱𝗲 𝗻𝗲́ 𝗶𝗹 𝗺𝗼𝗺𝗲𝗻𝘁𝗼 𝗽𝗲𝗿 𝗱𝗶𝘀𝗰𝘂𝘁𝗲𝗿𝗻𝗲. Non c’è dubbio, però, che egli riesca a cogliere con grande finezza alcuni sentimenti e pensieri della mente di malati, che si trovano condannati a convivere con una frase che risuona sempre nella loro testa: “𝘚𝘦𝘪 𝘴𝘵𝘢𝘵𝘰 𝘴𝘷𝘦𝘳𝘨𝘰𝘨𝘯𝘢𝘵𝘰, 𝘴𝘦𝘪 𝘶𝘯 𝘱𝘦𝘳𝘥𝘦𝘯𝘵𝘦, 𝘯𝘰𝘯 𝘮𝘦𝘳𝘪𝘵𝘪 𝘥𝘪 𝘷𝘪𝘷𝘦𝘳𝘦”. Insuccesso, almeno in alcune aree della propria vita, e autocritica costante sono la compagnia quotidiana di queste persone. Il sabotatore interno non è, infatti, interessato a perseguire il fallimento di questa o quella specifica impresa, quando a portare il malato a odiare qualsiasi progetto di vita, desiderio, aspirazione alla felicità. “𝘛𝘩𝘦 𝘪𝘯𝘵𝘦𝘳𝘯𝘢𝘭 𝘴𝘢𝘣𝘰𝘵𝘦𝘶𝘳 𝘪𝘴 𝘵𝘩𝘦 𝘦𝘯𝘦𝘮𝘺 𝘰𝘧 𝘩𝘰𝘱𝘦”, si espressero lapidariamente due psicoanalisti americani negli anni 1980. Fallire è il modo in cui i malati si ribellano alla vita e, contemporaneamente, si puniscono per questa ribellione blasfema.
𝗣𝗲𝗿 𝘀𝗽𝗶𝗲𝗴𝗮𝗿𝗲 𝗹’𝗼𝗿𝗶𝗴𝗶𝗻𝗲 𝗱𝗲𝗹 “𝘀𝗮𝗯𝗼𝘁𝗮𝘁𝗼𝗿𝗲 𝗶𝗻𝘁𝗲𝗿𝗻𝗼”, 𝘂𝗻 𝗺𝗶𝗼 𝗮𝗻𝘁𝗶𝗰𝗼 𝗺𝗮𝗲𝘀𝘁𝗿𝗼 𝗱𝗶 𝗽𝘀𝗶𝗰𝗼𝗮𝗻𝗮𝗹𝗶𝘀𝗶, 𝗦𝗮𝗻𝗱𝗿𝗼 𝗚𝗶𝗻𝗱𝗿𝗼, raccontava il mito greco dello Spaventacavalli (Taràxippos). Si narrava, dunque, in Olimpia, di un dèmone – il Taràxippos - nascosto dietro l’ultima curva del circuito, che faceva imbizzarrire i cavalli durante le corse dei carri, causando rovinose cadute, e spesso la morte, proprio dei concorrenti sul punto di vincere. Questo spirito, secondo alcuni, era l’anima di un eroe sepolto nei pressi di Olimpia. La versione più accreditata lo identificava, però, con il fantasma di Mirtilo.
𝗔𝗹𝗹’𝗲𝗽𝗼𝗰𝗮 – 𝗽𝗿𝗶𝗺𝗮 𝗰𝗵𝗲 𝘀𝗶 𝘀𝘁𝗮𝗯𝗶𝗹𝗶𝘀𝘀𝗲𝗿𝗼 𝗶 𝗴𝗶𝗼𝗰𝗵𝗶 𝗼𝗹𝗶𝗺𝗽𝗶𝗰𝗶 – 𝗿𝗲𝗴𝗻𝗮𝘃𝗮 𝘀𝘂 𝗾𝘂𝗲𝗹𝗹𝗮 𝘇𝗼𝗻𝗮 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗚𝗿𝗲𝗰𝗶𝗮 𝗶𝗹 𝗿𝗲 𝗘𝗻𝗼𝗺𝗮𝗼. Costui, per via di una profezia nefasta, aveva deciso di sfidare i pretendenti della bellissima figlia Ippodamia in una corsa sui carri, decapitando chi di loro avesse perso. Già dodici giovani erano morti così, quando gli si presentò Pelope, figlio di Tantalo e amante del dio Poseidone. Il giovane aveva astutamente chiesto l’aiuto di Mirtilo, auriga di Enomao, promettendogli la metà del regno se avesse tradito il suo signore. Mirtilo accettò e manomise il cocchio del re, che si ribaltò durante la gara, causando la morte di Enomao. Tuttavia, dopo la vittoria, Pelope ingannò Mirtilo, e, invece di ricompensarlo, lo uccise precipitandolo in mare. Da quel momento, lo spirito di Mirtilo iniziò a vagare attorno al campo di gara per terrorizzare, far rovinare nella polvere e uccidere il cavaliere che si apprestava a vincere. “𝘓’𝘪𝘯𝘤𝘰𝘯𝘴𝘤𝘪𝘰 – concludeva il mio vecchio psicoanalista - 𝘦̀ 𝘶𝘯𝘰 𝘚𝘱𝘢𝘷𝘦𝘯𝘵𝘢𝘤𝘢𝘷𝘢𝘭𝘭𝘪. 𝘕𝘰𝘯 𝘦̀ 𝘴𝘰𝘭𝘵𝘢𝘯𝘵𝘰 𝘥𝘦𝘯𝘵𝘳𝘰 𝘥𝘪 𝘯𝘰𝘪. 𝘕𝘰𝘪 𝘴𝘦𝘯𝘵𝘪𝘢𝘮𝘰, 𝘴𝘱𝘦𝘴𝘴𝘰, 𝘥𝘪 𝘦𝘴𝘴𝘦𝘳𝘯𝘦 𝘱𝘳𝘦𝘥𝘢. 𝘌̀ 𝘢𝘭 𝘯𝘰𝘴𝘵𝘳𝘰 𝘧𝘪𝘢𝘯𝘤𝘰: 𝘢𝘮𝘪𝘤𝘰 𝘦 𝘯𝘦𝘮𝘪𝘤𝘰; 𝘴𝘤𝘰𝘯𝘰𝘴𝘤𝘪𝘶𝘵𝘰 𝘦𝘥 𝘪𝘮𝘱𝘳𝘦𝘷𝘦𝘥𝘪𝘣𝘪𝘭𝘦. 𝘘𝘶𝘢𝘭𝘤𝘩𝘦 𝘷𝘰𝘭𝘵𝘢 𝘳𝘪𝘶𝘴𝘤𝘪𝘢𝘮𝘰 𝘢 𝘥𝘰𝘮𝘪𝘯𝘢𝘳𝘭𝘰, 𝘮𝘢 𝘢𝘭𝘵𝘳𝘦 𝘷𝘰𝘭𝘵𝘦 𝘤𝘪 𝘴𝘰𝘱𝘳𝘢𝘧𝘧𝘢̀.”
𝗘̀ 𝗶𝗻𝘁𝗲𝗿𝗲𝘀𝘀𝗮𝗻𝘁𝗲 𝗻𝗼𝘁𝗮𝗿𝗲 𝗰𝗼𝗺𝗲 𝗶𝗹 𝗺𝗶𝘁𝗼 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗼 𝗦𝗽𝗮𝘃𝗲𝗻𝘁𝗮𝗰𝗮𝘃𝗮𝗹𝗹𝗶 𝘀𝗶 𝗳𝗼𝗻𝗱𝗶 𝘀𝘂 𝘂𝗻 𝗱𝗼𝗽𝗽𝗶𝗼 𝘁𝗿𝗮𝗱𝗶𝗺𝗲𝗻𝘁𝗼 𝗱𝗲𝘀𝘁𝗶𝗻𝗮𝘁𝗼 𝗮 𝗽𝗲𝗿𝗽𝗲𝘁𝘂𝗮𝗿𝘀𝗶 𝗮𝗹𝗹’𝗶𝗻𝗳𝗶𝗻𝗶𝘁𝗼: lo spettro di Mirtilo è condannato a tradire per sempre il suo re, ma anche a vendicarsi per l’eternità del tradimento subito da Pelope. Infatti, è abbastanza intuitivo che la rovina dei concorrenti sul filo dell’arrivo sia il ciclico ritornare di Mirtilo sul proprio crimine e, contemporaneamente, il tentativo di consumare una vendetta, sempre destinata a mancare il bersaglio, contro Pelope.
𝗖𝗼𝘀𝗶̀, 𝗱𝗶𝗲𝘁𝗿𝗼 𝗮𝗹𝗹’𝗶𝗺𝗺𝗮𝗴𝗶𝗻𝗲 𝗱𝗲𝗹 𝘀𝗮𝗯𝗼𝘁𝗮𝘁𝗼𝗿𝗲 𝗶𝗻𝘁𝗲𝗿𝗻𝗼 𝗮𝗹𝗹𝗲𝗴𝗴𝗶𝗮 𝘂𝗻’𝗶𝗺𝗺𝗮𝗴𝗶𝗻𝗲 𝗽𝗶𝘂̀ 𝗶𝗻𝗾𝘂𝗶𝗲𝘁𝗮𝗻𝘁𝗲. Il sabotatore interno è quella parte di noi che si è” affezionata” alla propria rabbia e solitudine, che non vuole rinunciare al desiderio di vendicarsi punendo, paradossalmente, anche sé stessa. È il piacere sottile di non provare piacere.
𝗗𝘂𝗲 𝗽𝗮𝗿𝗼𝗹𝗲, 𝗶𝗻 𝗰𝗼𝗻𝗰𝗹𝘂𝘀𝗶𝗼𝗻𝗲, 𝘀𝘂𝗹𝗹𝗮 𝗰𝘂𝗿𝗮 𝗱𝗶 𝗾𝘂𝗲𝘀𝘁𝗮 𝗰𝗼𝗻𝗱𝗶𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗰𝗼𝘀𝗶̀ 𝗱𝗼𝗹𝗼𝗿𝗼𝘀𝗮 𝗲 𝗶𝗻𝘃𝗮𝗹𝗶𝗱𝗮𝗻𝘁𝗲 𝗽𝗲𝗿 𝗹𝗮 𝗾𝘂𝗮𝗹𝗶𝘁𝗮̀ 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝘃𝗶𝘁𝗮 𝗱𝗶 𝗰𝗵𝗶 𝗻𝗲 𝗲̀ 𝘀𝗼𝗳𝗳𝗿𝗲. La prima battaglia che bisogna intraprendere è proprio quella contro il sabotatore interno perché, sin dall’inizio del trattamento, questo seminerà trappole di ogni tipo per rendere impossibile la cura, porterà il paziente a pensare che si tratta di una sfida persa in partenza, lo convincerà che la terapia non è quella adatta al suo disturbo, gli suggerirà che la neutrale benevolenza del medico è un limite alla sua libertà e una forma indiretta di controllo.
𝗦𝗲 𝘀𝗶 𝗿𝗶𝘂𝘀𝗰𝗶𝗿𝗮̀ 𝗮 𝘀𝘂𝗽𝗲𝗿𝗮𝗿𝗲 𝗾𝘂𝗲𝘀𝘁𝗮 𝗽𝗿𝗶𝗺𝗮 𝗳𝗮𝘀𝗲, 𝗶𝗹 𝗹𝗮𝘃𝗼𝗿𝗼 𝗽𝗼𝘁𝗿𝗮̀ 𝗽𝗼𝗶 𝗽𝗿𝗼𝗰𝗲𝗱𝗲𝗿𝗲 𝗮𝗯𝗯𝗮𝘀𝘁𝗮𝗻𝘇𝗮 𝘀𝗽𝗲𝗱𝗶𝘁𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗲, 𝗽𝗼𝗶𝗰𝗵𝗲́ 𝘀𝗶 𝘁𝗿𝗮𝘁𝘁𝗮 𝗱𝗶 𝗰𝗮𝘀𝗶, 𝗰𝗵𝗲, 𝗻𝗼𝗿𝗺𝗮𝗹𝗺𝗲𝗻𝘁𝗲, 𝗵𝗮𝗻𝗻𝗼 𝘂𝗻𝗮 𝗽𝗿𝗼𝗴𝗻𝗼𝘀𝗶 𝗺𝗼𝗹𝘁𝗼 𝗽𝗼𝘀𝗶𝘁𝗶𝘃𝗮. Se, invece, il sabotatore interno sarà più astuto o saprà sfruttare circostanze a lui particolarmente favorevoli, bisognerà rassegnarsi a vedere prima o poi partire il proprio paziente non guarito, ma pur sempre soddisfatto vincitore della sua ennesima sconfitta.