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Immagine del redattoreEmilio Mordini

IL SIGNIFICATO DELLA DEPRESSIONE E LA CURA


Siamo abituati a dare per scontato che sia normale essere a volte tristi, scoraggiati, addolorati, persino disperati. Alcune persone sembrano più lontane da questi sentimenti, altre ne sono, invece, spesso preda. La vita è difficile: delusioni, tradimenti, sconfitte, malattie e lutti costellano l’esistenza di ciascuno, chi più chi meno. Ma questa osservazione, così ovvia, basta a spiegare tutto il dolore che può affliggere un essere umano?  Perché questo dolore può diventare così profondo e persistente, che niente riesce a mitigarlo?  Da dove arriva il diavolo del mezzogiorno, quello che aggredisce alcuni e li svuota da ogni voglia di vivere? E perché altri si svegliano, madidi di sudore in preda a cupi pensieri, sempre alla stessa ora, alle tre di notte, l’ora del lupo?


La depressione è un mistero sino dal suo nome. Gli antichi la chiamavano melanconia (cioè, “bile nera”, un umore tetro dovuto a un malfunzionamento dei visceri) oppure accidia, letteralmente “indifferenza, disinteresse” (in tal caso, la consideravano un vizio, un’affezione morale). Il termine “depressione”, che significa letteralmente “schiacciati, abbattuti”, iniziò a essere usato in ambito medico solo nell’ Ottocento. Che cosa si indica con queste diverse espressioni?


La risposta non è facile: la perdita della voglia di vivere, una profonda tristezza, un senso di vuoto, soprattutto un opprimente dolore psicologico. Tuttavia, il dolore della depressione, anche se lo chiamiamo come quello provocato da una ferita, da un trauma fisico, da un mal di denti, sembra essere di natura diversa.  Addirittura, non è chiaro se la depressione sia sempre un dolore. Per un verso, la depressione può provocare un dolore lancinante, del tutto simile a quello causato da un lutto o da una grave perdita; d’altro canto, però, anche il tedium vitae, la perdita di ogni gioia e interesse nella vita, è una forma di depressione.  Così, a volte la depressione sembra essere una condizione positiva di sofferenza; altre volte appare come una situazione puramente negativa, di totale mancanza di piacere.  Ma può esistere un’assenza di piacere, senza che essa sia già, immediatamente, un dolore (cfr. Fedone, 60B)?


Nel primo di questa serie di articoli avevo sottolineato gli strettissimi rapporti tra ansia e depressione. Partivo, oltre che da osservazioni cliniche, anche dall’affermazione di uno dei primi allievi di Freud, Karl Abraham, che, nel 1912, scrisse: “Angoscia e depressione sono tra loro collegate allo stesso modo come lo sono la paura e il dolore”. Nel secondo articolo, ho descritto le caratteristiche e l’origine di angoscia/ansia e paura. È giunto adesso il momento di spiegare come io credo nasca la depressione e il suo rapporto con la paura. Ripeto ora un avvertimento che avevo fatto in precedenza: non un concetto nelle righe che seguiranno è originale. Per quasi ciascuna delle mie affermazioni avrei dovuto citare la lista di autori che l’hanno ispirata, ma questo scritto, già lungo, si sarebbe trasformato in un interminabile articolo accademico, cosa che non volevo. Di mio ci sono solo due cose: il fatto che tutto ciò che ho scritto l’ho verificato in decenni di pratica clinica e l’idea unificatrice che mi ha guidato.  


Partiamo, allora, dall’inizio: il dolore è ciò che causa la paura. Si ha paura sempre e solo del dolore, fisico e psicologico. Aristotele scriveva “[la paura è] la sofferenza per un male imminente e ineludibile”. Quale male maggiore per un essere umano che il dolore? Non è forse proprio il dolore quello che noi temiamo dinanzi ai mali che più ci spaventano, come la morte, la malattia, la perdita di chi ci è caro? Tutte queste condizioni ci incutono paura perché le pensiamo causa di dolore, indipendentemente dal fatto che lo siano sia davvero. Lo spiega molto efficacemente Kirillov ne I Demoni, quando chiede al suo interlocutore di immaginare “una pietra della grandezza di una grossa casa; essa è sospesa e voi ci siete sotto: se vi cade addosso sulla testa vi fa male?”. L’interlocutore risponde che sarebbe annichilito dal terrore, ma poi è costretto ad ammettere che, se la pietra cadesse davvero, egli non avrebbe nemmeno il tempo di accorgersene. Conclude, allora, Kirillov: «Eppure (…) mentre pende avrete molta paura che vi faccia male. Il primo degli scienziati, il primo dei medici, tutti avranno molta paura. Tutti sapranno che non fa male ma tutti avranno paura che faccia male» (Fëdor Michailovic Dostoevskij - I demoni, Parte 1, Cap. Terzo, VIII).


Il dolore psicologico ha due componenti: la sofferenza generata dall’attesa di un male percepito imminente e ineludibile e la sofferenza della disperazione. Queste due condizioni non sono distinte, piuttosto costituiscono un continuum che comprende tutte le possibili situazioni intermedie.  La sofferenza dell’attesa, che chiamiamo ansia o paura, dà origine a una miriade di tentativi di difendersi dal male. Questi tentativi si manifestano sotto forma di sintomi psicologici e comportamentali, generando i diversi quadri sindromici delle malattie mentali, più o meno gravi a seconda delle limitazioni e distorsioni che comportano nella vita del malato (a questo argomento è in parte dedicato l’articolo “Che cos’è l’ansia?”).


La sofferenza della disperazione è invece sempre una sola, seppure a gradi di severità diversi: la depressione. Ne ho parlato a proposito della teoria della Einheitspsychose (psicosi unica) a cui ho accennato nel primo articolo di questa serie ("Che cos'è la depressione?"). Cosa sia la sofferenza della disperazione, lo si capisce molto bene pensando a un terribile test che, sino qualche anno fa, era usato dalle case farmaceutiche per valutare l’efficacia e relativa potenza dei farmaci antidepressivi. Il test - detto di Porsolt o del nuoto forzato o del nuoto disperato – consisteva nel mettere un topo in un cilindro di vetro pieno d’acqua dal quale l’animaletto non potesse scappare. Inizialmente, il topo reagiva tentando lo stesso di fuggire e provando in tutti i modi di scalare le pareti del cilindro. Poi, si rassegnava a nuotare e continuava a farlo in modo disperato sino al momento in cui si arrendeva, lasciandosi affogare. L'idea dietro questo test era che, se il topo aveva assunto un farmaco antidepressivo efficace, allora il suo tempo di nuoto forzato si sarebbe prolungato rispetto al topo che aveva assunto un medicamento meno efficace o nessun medicamento. È interessante notare che si trattava proprio di quello che accadeva, dimostrando, così, che persino in un topo il momento della resa non è determinato soltanto dal collasso fisico ma anche dall’esaurimento della capacità di reggere “psicologicamente” (altrimenti il farmaco antidepressivo non avrebbe modificato il tempo di nuoto forzato).


La depressione è, dunque, lo stato di resa e di abbandono al male: lasciarsi affogare come il topino del test. Ho detto che il male per gli esseri umani coincide sempre con un qualche dolore. Nei due articoli precedenti, argomentavo che il dolore psicologico ha sempre una stessa causa: la solitudine. Con tale termine, non intendevo l’esperienza dell’isolamento e neppure il sentirsi abbandonati o non amati.  Queste evenienze possono essere drammatiche, ma non mi riferivo a esse. La solitudine di cui parlavo è quella generata dalla propria aggressività. Si tratta di una gamma di sentimenti diversi (ad esempio: rabbia, odio, invidia, avidità), tutti caratterizzati da desideri ostili e distruttivi rivolti alle persone vicine.  Questi impulsi aggressivi creano inevitabilmente una profonda sensazione di solitudine interiore, indipendentemente dalle condizioni esteriori di vita.  


Gli adulti tendono a illudersi che l’età infantile sia immune, o quasi, da questi sentimenti: è vero, invece, il contrario. Gli esseri umani apprendono molto precocemente ad avere impulsi ostili, forse già durante la vita intrauterina e, in ogni caso, dimostrano di possederli a partire dai primi mesi di vita. La ragione è semplice: il bambino nasce aperto al mondo, quindi anche estremamente vulnerabile. Da adesso e nelle prossime righe non parlerò più di mie esperienze dirette ma riferirò il risultato di ricerche altrui e di ciò che mi sembra di poter inferire da osservazioni che ho fatto su pazienti adulti.  Naturalmente si tratta della parte più opinabile di questo articolo: non pretendo che nessuno la prenda per vera, mi accontento che la si consideri abbastanza verosimile.


Diverse e molteplici fonti di conoscenza (gli studi etologici sull’attaccamento, l’osservazione sistematica di neonati, l’ecografia prenatale, etc.) hanno progressivamente contraddetto l’antica teoria psicoanalitica che l’infante non fosse in grado di percepire il mondo esterno come tale e che vi fosse una fase iniziale in cui il piccolo umano non distinguesse tra soggetto e oggetto.  Al contrario, ora sappiamo che il bimbo riconosce il proprio ambiente (anche attraverso processi di maturazione neurologica e sensoriale) e lo distingue come altro da sé.  Questa apertura al mondo, associata alla debolezza fisica e alla necessità che ha il neonato di essere totalmente accudito, lo espongono, però, a frustrazioni e delusioni. Si tratta di eventi pressoché inevitabili, che non sono per lo più percepiti dagli adulti o, quando lo sono, appaiono loro del tutto irrilevanti. Dal punto di vista dell’infante, invece, questi avvenimenti sono, con ogni probabilità, tante piccole catastrofi.


Le frustrazioni hanno una loro utilità, perché insegnano al bambino che il mondo e gli altri non sono sempre a disposizione dei suoi desideri e bisogni, purtroppo, però, gli insegnano anche a odiare: perché ciò avvenga è molto meno ovvio di quanto noi si sia abituati a pensare. Fatto sta, comunque, che la rabbia del neonato si dirige, inevitabilmente, verso chi gli è più vicino: i familiari e chi si prende cura di lui. Questa rabbia distrugge, anche se solo momentaneamente, i legami d’amore e attaccamento, generando una sensazione di esclusione (che è, in realtà, autoesclusione) da cui prendono le mosse anche i primi sentimenti di invidia. Nello stesso tempo, il bambino ha l’impressione che il suo amore sia stato rifiutato e da questa sensazione impara l’avidità, cioè la determinazione di trattenere per sé i propri sentimenti positivi e non donarli più a nessuno.


Rabbia, invidia, avidità danno origine all’esperienza di solitudine più dolorosa che ci possa essere, quella che nasce dal tradire chi si sta prendendo cura di noi, i nostri “benefattori”. Nel patire la totale solitudine interiore, contro cui non può nulla a causa della sua stessa rabbia, il bambino odierà sé stesso e il proprio prossimo: si tratta della prima, tremenda, esperienza di depressione, che nessun essere umano è mai riuscito a evitare, come già aveva sostenuto (seppur giungendovi per strade diverse da quelle che ho percorso io) una psicoanalista del passato, Melanie Klein. Poi, nella stragrande maggioranza delle storie infantili, il calore dell’amore ha la meglio: l’attaccamento alle persone vicine si ristabilisce e rinsalda; la vita prosegue - tra gioie e dolori, amori e rancori - anche per il nuovo essere umano, che scorderà queste antichissime esperienze, anche se ne serberà per sempre traccia nel proprio cuore.


Successivamente, ciascuno svilupperà un suo peculiare modo di affrontare gli impulsi aggressivi, che verrà poi ulteriormente modellato nel corso della vita, anche a seconda di una serie di fattori personali: costituzione genetica e biologica, esperienze delle generazioni da cui proviene, decorso della depressione post-natale e, in generale, le vicende della sua infanzia (anche il complesso di Edipo: non temete, colleghi psicoanalisti). Alcuni sapranno controllare meglio la propria aggressività, altri, invece, si lasceranno dominare da essa; alcuni la metteranno al servizio di fini positivi, altri la useranno per alimentare la propria sete di potere; alcuni saranno tormentati dai sensi di colpa, altri godranno sadicamente della propria cattiveria.   Le possibili avventure del male sono tante e molteplici, quasi quanto quelle del bene e quanti sono gli esseri umani.


Resta il fatto che il male di cui si ha più paura, che arreca maggior dolore, è proprio il Male, quello che Dante ha rappresentato come lago ghiacciato e ha collocato nel nono cerchio dell’Inferno, agli antipodi dell’Amore. Il continuum tra paura/ansia e depressione, a cui ho accennato, nasce quando un essere umano inizia a temere di essere sopraffatto dalla propria cattiveria. Si badi, non in chi è “più cattivo”, ma in chi (per ragioni legate a quei fattori personali che citavo in precedenza) sente che la cattiveria sta per travolgerlo. In quel preciso momento, torna la paura dell’antica solitudine, quella di cui, nel suo lontanissimo passato, aveva fatto – come tutti - esperienza. Si tratta, però, di una paura malata, che ha in sé il germe del tradimento: non salva, ma, al contrario, trascina a fondo (Mt, 14, 24-33). Chi l’avverte ha l’impressione che il Male sia ora per lui un “male imminente e ineludibile”. Allora, inizia, terrorizzato e disperato, a dibattersi con tutte le sue forze, proprio come un topino in un cilindro di vetro.  


Ciò che lo può salvare dal gelo del ghiaccio infernale e che cura la depressione (l’agente della guarigione, come dicono gli addetti ai lavori) è solo il calore dell’amore. Bisogna, però, a questo punto essere chiari, perché molte bestialità girano sotto l’etichetta della “cura tramite l’amore”. L’amore che cura non è certo l’amore per sé stessi (espressione che, in questo contesto, è priva di ogni significato), né l’amore dei buoni per professione (psichiatri, psicologi, psicoanalisti e psico qualcosa di ogni risma).  Ciò che cura non è mai essere amati (tantomeno da costoro), ma amare.  Ecco perché c’è sempre qualcosa di divino nella cura, quando essa è vera cura: perché l’amore (si sia o meno credenti) rimane un’esperienza trascendente, un dono che ci giunge da lontano. L’ amore è Dio o, almeno, un dio.  


Quello che si può fare – con grande umiltà e attenzione - è imparare a riconoscere e superare le resistenze e le difese che il malato oppone all’amore: innanzitutto le più pericolose, quelle che si presentano sotto forma di falsi amori, di simia amoris. Le strade per farlo sono molte: comprendono, tra l’altro, anche il metodo principe della psicoanalisi classica (cioè, l’analisi del transfert) nonché quei farmaci che possono, almeno momentaneamente, dare a chi ha paura e si dispera la forza per continuare a nuotare. Questo, però, è un tema che tratterò in un prossimo articolo.



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