Quello che resta dell'epidemia
- Emilio Mordini
- 15 giu 2023
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 15 lug 2023

𝗢𝗿𝗮 𝗰𝗵𝗲 𝗹𝗮 𝗺𝗮𝗿𝗲𝗮 𝘀𝗶 𝗲̀ 𝗿𝗶𝘁𝗶𝗿𝗮𝘁𝗮, 𝗶𝗻 𝗮𝘁𝘁𝗲𝘀𝗮 𝗰𝗵𝗲 𝗽𝗿𝗶𝗺𝗮 𝗼 𝗽𝗼𝗶 𝘀𝗶 𝗮𝗹𝘇𝗶 𝗹𝗮 𝗽𝗿𝗼𝘀𝘀𝗶𝗺𝗮, è tempo di domandarsi cosa resta dell’epidemia. Non intendo parlare delle polemiche che le vedove del COVID, dall’una o dall’altra parte, si sforzano di tenere accese per salvare un po’ di calore che scaldi ancora i loro cuori e illumini i loro volti. Parlo di quanto resta davvero, ogni giorno, nella vita vostra e mia.
𝗟𝗮 𝗽𝗿𝗶𝗺𝗮 𝗰𝗼𝘀𝗮 𝗰𝗵𝗲 𝗿𝗲𝘀𝘁𝗮, 𝗹𝗮 𝗽𝗶𝘂̀ 𝗶𝗺𝗽𝗼𝗿𝘁𝗮𝗻𝘁𝗲 𝗽𝗲𝗿𝗰𝗵𝗲́ 𝗱𝗮 𝗲𝘀𝘀𝗮 𝗻𝗮𝘀𝗰𝗼𝗻𝗼 𝗹𝗲 𝗮𝗹𝘁𝗿𝗲, è stato l’impulso verso una digitalizzazione di tutte le attività umane, in particolar modo quelle connesse al mondo del lavoro, dell’insegnamento, della medicina e della salute, dell’economia. Sono processi che erano già in corso ma che, con l’epidemia, hanno subito un’accelerazione impressionante.
𝗗𝗶𝘀𝘁𝗮𝗻𝘇𝗶𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗼 𝘀𝗼𝗰𝗶𝗮𝗹𝗲, 𝗻𝗲𝗰𝗲𝘀𝘀𝗶𝘁𝗮̀ 𝗱𝗶 𝗰𝗼𝗺𝗯𝗶𝗻𝗮𝗿𝗲 𝗲 𝗰𝗼𝗼𝗿𝗱𝗶𝗻𝗮𝗿𝗲 𝗹𝗲 𝗶𝗻𝗳𝗼𝗿𝗺𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗶 𝘀𝘂 𝘂𝗻 𝗽𝗶𝗮𝗻𝗼 𝗴𝗹𝗼𝗯𝗮𝗹𝗲, dematerializzazione di tutti i rapporti comprese le transazioni monetarie e bancarie, e-commerce hanno trasformato in pochissimi anni il volto del mondo in cui viviamo, generando effetti a cascata: dalla quasi scomparsa delle compagnie aeree low-cost a una crisi sempre più grave del commercio di prossimità in tutte le sue forme.
𝗟𝗮 𝘀𝗲𝗰𝗼𝗻𝗱𝗮 𝗰𝗼𝘀𝗮 𝗰𝗵𝗲 𝗿𝗲𝘀𝘁𝗮 𝗼𝗿𝗶𝗴𝗶𝗻𝗮 𝗱𝗶𝗿𝗲𝘁𝘁𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗲 𝗱𝗮𝗹𝗹𝗮 𝗽𝗿𝗶𝗺𝗮. Si tratta di un fenomeno meno evidente ma dagli effetti persino più rilevanti. L’epidemia ha “autorizzato” i governi e le strutture inter e sovra governative a fare ciò che sino a pochi anni fa era non soltanto proibito ma descritto come incubo “orwelliano”: la fusione tra banche date eterogenee. Da anni, gran parte delle informazioni che riguardano i cittadini sono raccolte e conservate in formato elettronico da enti pubblici e privati. Sino allo scoppiare dell’epidemia, queste masse ingenti di informazione erano rigidamente compartimentate: ad esempio, le informazioni generate dalla nostra carta di credito non erano condivise dal sistema sanitario e viceversa, lo stesso accadeva per tutte – o quasi – le banche dati. L’epidemia ha rotto questa rigida separazione e con frequenza via, via maggiore, banche dati diverse hanno accesso alle informazioni più disparate e le “fondono”, cioè le comparano tra loro per costruire profili di comportamento e di rischio e quindi anche politiche predittive.
𝗦𝗶 𝘁𝗿𝗮𝘁𝘁𝗮 𝗱𝗶 𝘂𝗻 𝗽𝗿𝗼𝗰𝗲𝘀𝘀𝗼 𝗰𝗵𝗲 𝗲̀ 𝘀𝗼𝗹𝗼 𝗮𝗴𝗹𝗶 𝗶𝗻𝗶𝘇𝗶 𝗲 𝗺𝗼𝗹𝘁𝗶 𝗼𝘀𝘁𝗮𝗰𝗼𝗹𝗶 𝗹𝗲𝗴𝗮𝗹𝗶 𝘀𝗶 𝗳𝗿𝗮𝗽𝗽𝗼𝗻𝗴𝗼𝗻𝗼 𝗮𝗻𝗰𝗼𝗿𝗮 𝗮𝗹 𝘀𝘂𝗼 𝗿𝗲𝗮𝗹𝗶𝘇𝘇𝗮𝗿𝘀𝗶, tuttavia quello che veramente conta è che stato superato il primo e più importante scoglio: l’interoperabilità. Sino a pochi anni fa le diverse banche dati erano disegnate per essere non interoperabili, cioè i dati erano organizzati in modo tale che, anche volendo combinarli, spesso sarebbe stato impossibile. L’epidemia ha generato una spinta in senso inverso: oggi le banche dati sono quasi tutte disegnate per essere interoperabili. La storia insegna che, ogni qual volta una società umana ha sviluppato una determinata capacità tecnologica, prima o poi quella capacità sarà usata, magari per cose banali (non si pensi sempre a distopie fantascientifiche) ma con la possibilità di cambiare la vita, come la concessione di un credito bancario, il costo di un premio assicurativo, la posizione in una lista di attesa sanitaria.
𝗟𝗮 𝘁𝗲𝗿𝘇𝗮 𝗰𝗼𝘀𝗮 𝗰𝗵𝗲 𝗿𝗲𝘀𝘁𝗮 𝗲̀ 𝗾𝘂𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗰𝗵𝗲 𝗮 𝗺𝗲, 𝗰𝗼𝗺𝗲 𝗽𝘀𝗶𝗰𝗼𝗮𝗻𝗮𝗹𝗶𝘀𝘁𝗮 𝗲 𝗰𝗶𝘁𝘁𝗮𝗱𝗶𝗻𝗼, 𝗽𝗿𝗲𝗼𝗰𝗰𝘂𝗽𝗮 𝗱𝗶 𝗽𝗶𝘂̀: l’epidemia ha accelerato il processo già in corso di creazione di una “plebe globale”. Chiamo “plebe globale” la massa complessiva di persone che costituisce oggi il popolo di Internet: quell’universo di esseri umani che - indipendentemente dal luogo dove abitano, dalla cultura da cui provengono, dall’educazione e istruzione ricevuta, dal loro stato sociale ed economico, dalla loro povertà o ricchezza, dalla loro età e professione, dalle loro credenze religiose, politiche, filosofiche – costruiscono la propria visione del mondo e i propri valori di riferimento quasi unicamente attraverso il world wide web.
𝗦𝗰𝗿𝗶𝘃𝗲𝘃𝗮 𝗻𝗲𝗹 𝟭𝟵𝟴𝟴 𝗝𝘂𝗹𝗶𝗮 𝗞𝗿𝗶𝘀𝘁𝗲𝘃𝗮: «𝘚𝘵𝘢 𝘴𝘰𝘳𝘨𝘦𝘯𝘥𝘰 𝘶𝘯𝘢 𝘤𝘰𝘮𝘶𝘯𝘪𝘵𝘢̀ 𝘱𝘢𝘳𝘢𝘥𝘰𝘴𝘴𝘢𝘭𝘦 𝘧𝘢𝘵𝘵𝘢 𝘥𝘪 𝘴𝘵𝘳𝘢𝘯𝘪𝘦𝘳𝘪 𝘤𝘩𝘦 𝘴𝘪 𝘢𝘤𝘤𝘦𝘵𝘵𝘢𝘯𝘰 𝘯𝘦𝘭𝘭𝘢 𝘮𝘪𝘴𝘶𝘳𝘢 𝘪𝘯 𝘤𝘶𝘪 𝘴𝘪 𝘳𝘪𝘤𝘰𝘯𝘰𝘴𝘤𝘰𝘯𝘰 𝘴𝘵𝘳𝘢𝘯𝘪𝘦𝘳𝘪 𝘢 𝘭𝘰𝘳𝘰 𝘴𝘵𝘦𝘴𝘴𝘪. 𝘓𝘢 𝘴𝘰𝘤𝘪𝘦𝘵𝘢̀ 𝘮𝘶𝘭𝘵𝘪𝘯𝘢𝘻𝘪𝘰𝘯𝘢𝘭𝘦 𝘴𝘢𝘳𝘢̀ 𝘲𝘶𝘪𝘯𝘥𝘪 𝘪𝘭 𝘳𝘪𝘴𝘶𝘭𝘵𝘢𝘵𝘰 𝘥𝘪 𝘶𝘯 𝘪𝘯𝘥𝘪𝘷𝘪𝘥𝘶𝘢𝘭𝘪𝘴𝘮𝘰 𝘦𝘴𝘵𝘳𝘦𝘮𝘰, 𝘮𝘢 𝘤𝘰𝘯𝘴𝘢𝘱𝘦𝘷𝘰𝘭𝘦 𝘥𝘦𝘭𝘭𝘦 𝘱𝘳𝘰𝘱𝘳𝘪𝘦 𝘥𝘦𝘣𝘰𝘭𝘦𝘻𝘻𝘦 𝘦 𝘥𝘦𝘪 𝘱𝘳𝘰𝘱𝘳𝘪 𝘭𝘪𝘮𝘪𝘵𝘪, 𝘤𝘩𝘦 𝘤𝘰𝘯𝘰𝘴𝘤𝘦 𝘴𝘰𝘭𝘰 𝘤𝘩𝘪 𝘦̀ 𝘪𝘳𝘳𝘪𝘥𝘶𝘤𝘪𝘣𝘪𝘭𝘮𝘦𝘯𝘵𝘦 𝘱𝘳𝘰𝘯𝘵𝘰 𝘢𝘥 𝘢𝘪𝘶𝘵𝘢𝘳𝘦 𝘯𝘦𝘭𝘭𝘢 𝘱𝘳𝘰𝘱𝘳𝘪𝘢 𝘥𝘦𝘣𝘰𝘭𝘦𝘻𝘻𝘢, 𝘶𝘯𝘢 𝘥𝘦𝘣𝘰𝘭𝘦𝘻𝘻𝘢 𝘪𝘭 𝘤𝘶𝘪 𝘢𝘭𝘵𝘳𝘰 𝘯𝘰𝘮𝘦 𝘦̀ 𝘦𝘴𝘵𝘳𝘢𝘯𝘦𝘪𝘵𝘢̀ 𝘳𝘢𝘥𝘪𝘤𝘢𝘭𝘦» (Etrangers à nous-mêmes, Gallimard, Paris, p.290).
𝗞𝗿𝗶𝘀𝘁𝗲𝘃𝗮 𝗮𝘃𝗲𝘃𝗮 𝗿𝗮𝗴𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗲 𝘁𝗼𝗿𝘁𝗼 𝗮𝗹 𝘁𝗲𝗺𝗽𝗼 𝘀𝘁𝗲𝘀𝘀𝗼. Da un lato è vero che è nata una comunità paradossale di stranieri a sé stessi; dall’altro, però, la psicoanalista francese s’illudeva pensando a una società di individui che riconoscono nella debolezza e sradicamento ciò che li unisce. Al contrario, la società multinazionale ha cercato e trovato le sue radici in Google, Facebook, Instagram, TikTok, Twitter e ciò che domani prederà il loro posto (Chatbotgpt, Tome AI e i loro futuri fratelli).
𝗦𝘁𝗿𝘂𝗺𝗲𝗻𝘁𝗼 𝗽𝗿𝗶𝗻𝗰𝗶𝗽𝗮𝗹𝗲 𝗱𝗶 𝗾𝘂𝗲𝘀𝘁𝗼 𝗽𝗿𝗼𝗰𝗲𝘀𝘀𝗼 𝗲̀ 𝗹’𝗶𝗻𝘁𝗶𝗺𝗶𝘁𝗮̀ 𝗰𝗼𝗻𝗱𝗶𝘃𝗶𝘀𝗮 𝗽𝘂𝗯𝗯𝗹𝗶𝗰𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗲 che, attraverso il web, viene esibita sul palcoscenico globale. La cosa straordinaria è che questo processo non si è avvalso di nessuna coercizione ma ha fatto semplicemente leva sull’esibizionismo delle persone e sulla loro aridità emotiva. Molte persone, infatti, riescono a illudersi di provare emozioni solo se osservano sé stesse recitarle. Così, quanto vi dovrebbe essere di più nascosto e teneramente protetto nell'animo umano – il dolore per una morte, la felicità per un amore, la nostalgia per un ricordo – è invece grottescamente esposto online accanto alle trivialità più ributtanti, a corpi ammiccanti, sghignazzi osceni, insulti ripugnanti.
𝗜𝗻 𝗾𝘂𝗲𝘀𝘁𝗼 𝗺𝗼𝗱𝗼 𝘀𝗶 𝗲̀ 𝗰𝗿𝗲𝗮𝘁𝗮 𝘂𝗻𝗮 𝗺𝗮𝘀𝘀𝗮 𝗮𝗯𝗯𝗿𝘂𝘁𝗶𝘁𝗮 𝗲 𝗼𝗺𝗼𝗹𝗼𝗴𝗮𝘁𝗮 𝗱𝗮𝗹 𝗽𝗿𝗼𝗽𝗿𝗶𝗼 𝘀𝘁𝗲𝘀𝘀𝗼 𝗰𝗼𝗺𝗽𝗼𝗿𝘁𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗼, una plebe fatta da 𝘬𝘢𝘬𝘰𝘪 𝘬𝘢𝘪 𝘢𝘪𝘴𝘤𝘩𝘳𝘰𝘪, brutti e malvagi. In questa massa ci si può pure dividere in pro-vax e no-vax, in sostenitori della teoria del gender o difensori della famiglia tradizionale, in coloro che vogliono dare o non dare armi all’Ucraina, a favore o contro la società multietnica: quello che conta davvero non è cosa si sostiene ma la scelta di farlo online. Mai come in questo caso, il mezzo usato per comunicare è il vero messaggio.
𝗘̀ 𝘀𝘁𝗮𝘁𝗮 𝗹’𝗲𝗽𝗶𝗱𝗲𝗺𝗶𝗮 𝗮 𝗴𝗲𝗻𝗲𝗿𝗮𝗿𝗲 𝗾𝘂𝗲𝘀𝘁𝗮 𝗺𝗮𝘀𝘀𝗮 𝗶𝗻𝗳𝗼𝗿𝗺𝗲 𝗱𝗶 𝗽𝗲𝗿𝘀𝗼𝗻𝗲? No, come ho detto l’epidemia ha unicamente accelerato un processo che era già in corso. Tuttavia, promuovendo ipocrisia e conformismo, insensibilità camuffata da pietà, falsi eroismi e vera codardia, delazione in guisa di solidarietà, l’epidemia ha rotto i residui legami comunitari, sradicato quel poco di bellezza che sopravviveva alla tecnologia e ci ha reso tutti peggiori e più brutti. La cosa terribile è che nessuno è sfuggito a questo destino. Alla plebe globale non si oppone più come una volta un’élite superiore per valori, gusti e cultura. Le classi dirigenti oggi non sono diverse dalla massa: hanno le stesse preferenze, le stesse ambizioni, spartiscono la stessa bruttezza e volgarità, sono solo infinitamente più ricche.
𝗡𝗼𝗻 𝗲̀ 𝗳𝗮𝗰𝗶𝗹𝗲 𝘁𝗿𝗼𝘃𝗮𝗿𝗲 𝘂𝗻 𝗺𝗼𝗱𝗼 𝗽𝗲𝗿 𝘀𝗯𝗿𝗼𝗴𝗹𝗶𝗮𝗿𝘀𝗶 𝗱𝗮 𝗾𝘂𝗲𝘀𝘁’𝗶𝗻𝘁𝗿𝗶𝗴𝗼 che l’epidemia ci ha lasciato. Dal mio punto di vista di psicoanalista, mi sembra che la migliore strada che si possa perseguire sia quella di cercare innanzitutto di “guarire” sé stessi e le persone che ci sono più vicine. Ci sono tre raccomandazioni, in particolare, che mi sento di fare.
𝗣𝗲𝗿 𝗽𝗿𝗶𝗺𝗮 𝗰𝗼𝘀𝗮, 𝗺𝗶 𝘀𝗲𝗺𝗯𝗿𝗮 𝗰𝗶 𝘀𝗶 𝗱𝗲𝗯𝗯𝗮 𝘁𝗲𝗻𝗲𝗿𝗲 𝘂𝗻 𝗽𝗼’ 𝗽𝗶𝘂̀ 𝗮 𝗱𝗶𝘀𝘁𝗮𝗻𝘇𝗮 𝗱𝗮𝗹 𝗺𝗼𝗻𝗱𝗼 𝗼𝗻𝗹𝗶𝗻𝗲, senza ricorrere a scelte troppo drastiche che non si riuscirebbero a rispettare a lungo. Sarebbe già sufficiente rinunziare, ogni volta che è possibile, alla comunicazione digitale sia nella vita professionale sia in quella privata. Se si è insegnante, si cerchi di ridurre al minimo ogni forma di didattica a distanza; se si è medico o psicologo si rifiuti di offrire consultazioni (o peggio ancora trattamenti) online; per fare gli auguri alla mamma, le si mandi un bigliettino e si evitino Zoom, Skype, e così via.
𝗜𝗻 𝘀𝗲𝗰𝗼𝗻𝗱𝗼 𝗹𝘂𝗼𝗴𝗼, 𝗱𝗶 𝗳𝗿𝗼𝗻𝘁𝗲 𝗮𝗹 𝗰𝗼𝗻𝘁𝗿𝗼𝗹𝗹𝗼 𝗰𝗿𝗲𝘀𝗰𝗲𝗻𝘁𝗲 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗲 𝗻𝗼𝘀𝘁𝗿𝗲 𝘃𝗶𝘁𝗲, bisognerebbe evitare due reazioni ugualmente patologiche. Innanzitutto, l’ossessione di essere spiati, che è spesso espressione del suo opposto, cioè di un desiderio di esserlo. L’umanità è sempre più una massa anonima e indistinta, ma tutti sperano (si illudono) di essere differenti. Mode tra loro diversissime (i tatuaggi, la fluidità sessuale, le intolleranze alimentari e così via) sono proprio espressione di questa ricerca di una individualità perduta. Così l’idea di essere spiati dal 𝘗𝘰𝘵𝘦𝘳𝘦 può affascinare perché ci fa sentire in qualche modo unici. La banale realtà è invece che non siamo di alcun interesse in quanto individui ma solo come appartenenti a determinate categorie.
𝗔𝗹𝗹’𝗼𝗽𝗽𝗼𝘀𝘁𝗼 𝗱𝗲𝗹𝗹’𝗮𝘁𝘁𝗲𝗴𝗴𝗶𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗼 𝗽𝗮𝗿𝗮𝗻𝗼𝗶𝗰𝗼, 𝗰’𝗲̀ 𝗾𝘂𝗲𝗹𝗹𝗼 𝗱𝗲𝗹 𝘀𝗲𝗿𝘃𝗼 𝗳𝘂𝗿𝗯𝗼, cioè colui che fa propria la morale di Arlecchino e Leporello. Finge obbedienza al padrone ma, appena è sicuro di farla franca, lo deruba e lo inganna. Così facendo, però, ammette di essere e si trasforma definitivamente in servo.
𝗜𝗻𝗳𝗶𝗻𝗲, 𝗰’𝗲̀ 𝗹𝗮 𝘁𝗲𝗿𝘇𝗮 𝗿𝗮𝗰𝗰𝗼𝗺𝗮𝗻𝗱𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲: 𝗲𝘃𝗶𝘁𝗮𝗿𝗲 𝗶𝗻 𝘁𝘂𝘁𝘁𝗶 𝗶 𝗺𝗼𝗱𝗶 𝗱𝗶 𝗿𝗲𝗻𝗱𝗲𝗿𝗲 𝗽𝘂𝗯𝗯𝗹𝗶𝗰𝗮 𝗹𝗮 𝗽𝗿𝗼𝗽𝗿𝗶𝗮 𝗶𝗻𝘁𝗶𝗺𝗶𝘁𝗮̀ e di partecipare a quella degli altri quando lo fanno. Un amore, un dolore, una nostalgia sono oggetti preziosi che non tollerano la sovraesposizione, proprio come certe splendide pitture che rinvennero i primi archeologi nelle tombe etrusche. Esposte dopo millenni alla luce del sole, svanirono quasi completamente in poche ore, lasciando solo un pallido ricordo della loro originaria bellezza.
𝗦𝗼𝗻𝗼 𝗮𝗻𝗰𝗼𝗿𝗮 𝗽𝗼𝗰𝗼 𝗾𝘂𝗲𝘀𝘁𝗲 𝗺𝗶𝗲 𝗿𝗮𝗰𝗰𝗼𝗺𝗮𝗻𝗱𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗶? Certamente, ma intanto iniziamo.
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