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  • Immagine del redattoreEmilio Mordini

UN POST CENSURATO DA FACEBOOK

Questo post è stato censurato da Facebook. No, non per la casta nudità raffigurata da Rubens - che, per altro, non figurava nel post originale - ma perché sono stato confuso con un propagandista di miracolose diete dimagranti. Lo ripropongo a voi, dichiarandomi sin d'ora pronto a rivelare, a chi me ne facesse richiesta, il mio peso, girovita e valori dei lipidi ematici, a testimonianza dellemisere condizioni del mio adipe e del fatto che non millanto diete miracolose, quindi della mia perfetta buona fede,


𝗧𝗨𝗧𝗧𝗜 𝗠𝗔𝗚𝗥𝗜, 𝗙𝗜𝗡𝗔𝗟𝗠𝗘𝗡𝗧𝗘


𝗜𝗹 𝟲 𝗮𝗽𝗿𝗶𝗹𝗲 𝟮𝟬𝟮𝟰 (𝗲𝘀𝗮𝘁𝘁𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗲 𝘂𝗻 𝗺𝗲𝘀𝗲 𝗳𝗮) 𝗹’𝗼𝗯𝗲𝘀𝗶𝘁𝗮̀ - questo cancro della nostra epoca, la nuova pestilenza che miete ancora più vittime del COVID – è stata definitivamente debellata. Lo è stata nel silenzio dei medici e della stampa e persino i social media hanno quasi del tutto ignorato l’evento: io stesso ne ho avuto contezza solo pochi giorni orsono.


𝗤𝘂𝗲𝗹 𝟲 𝗮𝗽𝗿𝗶𝗹𝗲 𝘀𝗶 𝗿𝗶𝘂𝗻𝗶𝘃𝗮 𝗮𝗱 𝗔𝘀𝘂𝗻𝗰𝗶𝗼𝗻, 𝗣𝗮𝗿𝗮𝗴𝘂𝗮𝘆, 𝗹𝗮 𝙇𝙖𝙩𝙞𝙣 𝘼𝙢𝙚𝙧𝙞𝙘𝙖𝙣 𝙁𝙚𝙙𝙚𝙧𝙖𝙩𝙞𝙤𝙣 𝙤𝙛 𝙊𝙗𝙚𝙨𝙞𝙩𝙮 𝙎𝙤𝙘𝙞𝙚𝙩𝙞𝙚𝙨 (𝙁𝙇𝘼𝙎𝙊) 𝗽𝗲𝗿 𝗶𝗹 𝘀𝘂𝗼 𝗫𝗩 𝗰𝗼𝗻𝗴𝗿𝗲𝘀𝘀𝗼. Nel corso della riunione, il presidente della FLASO e direttore del 𝘕𝘶𝘵𝘳𝘪𝘵𝘪𝘰𝘯 𝘗𝘳𝘰𝘨𝘳𝘢𝘮 della facoltà di medicina dell’università cattolica de Paraguay, 𝘙𝘢𝘧𝘢𝘦𝘭 𝘍𝘪𝘨𝘶𝘦𝘳𝘦𝘥𝘰 𝘎𝘳𝘪𝘫𝘢𝘭𝘣𝘢, ha riferito risultati di una task force designata ad hoc per approfondire la legittimità di considerare un’entità clinica chiamata “obesità”. I risultati sono stati a dir poco sconcertanti: facendo proprie le conclusioni già raggiunte nel 2016 dall’ 𝘈𝘮𝘦𝘳𝘪𝘤𝘢𝘯 𝘈𝘴𝘴𝘰𝘤𝘪𝘢𝘵𝘪𝘰𝘯 𝘰𝘧 𝘊𝘭𝘪𝘯𝘪𝘤𝘢𝘭 𝘌𝘯𝘥𝘰𝘤𝘳𝘪𝘯𝘰𝘭𝘰𝘨𝘺 e dall’ 𝘈𝘮𝘦𝘳𝘪𝘤𝘢𝘯 𝘊𝘰𝘭𝘭𝘦𝘨𝘦 𝘰𝘧 𝘌𝘯𝘥𝘰𝘤𝘳𝘪𝘯𝘰𝘭𝘰𝘨𝘺, anche il gruppo di lavoro latino-americano è giunto alla conclusione che il termine “obesità” debba esser abolito, perché innegabilmente portatore di stigma, e sostituito con il più neutro e corretto "𝗔𝗱𝗶𝗽𝗼𝘀𝗶𝘁𝘆-𝗕𝗮𝘀𝗲𝗱 𝗖𝗵𝗿𝗼𝗻𝗶𝗰 𝗗𝗶𝘀𝗲𝗮𝘀𝗲 (𝗔𝗕𝗖𝗗)".

𝗢𝗿𝗮 𝗹𝗮 𝗾𝘂𝗲𝘀𝘁𝗶𝗼𝗻𝗲 𝘀𝗮𝗿𝗮̀ 𝗽𝗼𝗿𝘁𝗮𝘁𝗮 𝗮𝗹𝗹’𝗮𝘁𝘁𝗲𝗻𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗪𝗢𝗙 (𝗪𝗼𝗿𝗹𝗱 𝗢𝗯𝗲𝘀𝗶𝘁𝘆 𝗙𝗲𝗱𝗲𝗿𝗮𝘁𝗶𝗼𝗻) dove si spera che presto troverà una soluzione. Del resto, la stessa WOF, nel 2023, aveva già evidenziato in un suo 𝗣𝗼𝘀𝗶𝘁𝗶𝗼𝗻 𝗦𝘁𝗮𝘁𝗲𝗺𝗲𝗻𝘁 (𝘖𝘣𝘦𝘴 𝘙𝘦𝘷. 2024 𝘑𝘢𝘯;25(1): 𝘦13642. 𝘥𝘰𝘪: 10.1111/𝘰𝘣𝘳.13642. 𝘌𝘱𝘶𝘣 2023 𝘖𝘤𝘵 17) come fosse fondamentale cambiare la narrazione globale sull’obesità, prestando particolare attenzione al fatto che “𝘭𝘢𝘯𝘨𝘶𝘢𝘨𝘦 𝘤𝘰𝘮𝘮𝘰𝘯𝘭𝘺 𝘶𝘴𝘦𝘥 𝘪𝘯 𝘮𝘦𝘥𝘪𝘤𝘢𝘭 𝘴𝘦𝘵𝘵𝘪𝘯𝘨𝘴 (𝘪.𝘦., 𝘰𝘣𝘦𝘴𝘪𝘵𝘺, 𝘮𝘰𝘳𝘣𝘪𝘥 𝘰𝘣𝘦𝘴𝘪𝘵𝘺, 𝘢𝘣𝘯𝘰𝘳𝘮𝘢𝘭 𝘧𝘢𝘵, 𝘢𝘯𝘥 𝘦𝘹𝘤𝘦𝘴𝘴 𝘧𝘢𝘵) 𝘪𝘴 𝘰𝘧𝘵𝘦𝘯 𝘳𝘦𝘨𝘢𝘳𝘥𝘦𝘥 𝘢𝘴 𝘴𝘵𝘪𝘨𝘮𝘢𝘵𝘪𝘻𝘪𝘯𝘨”. Insomma, come ha commentato Julio Montero, nutrizionista e presidente dell’ASOED (Argentine Society of Obesity and Eating Disorder) siamo “on the right track" e di qui a qualche anno, probabilmente, potremo dichiarare ufficialmente scomparsa l’obesità.


𝗤𝘂𝗮𝗻𝗱𝗼, 𝘀𝗲𝗰𝗼𝗹𝗶 𝗳𝗮, 𝗳𝗿𝗲𝗾𝘂𝗲𝗻𝘁𝗮𝘃𝗼 𝗶 𝗰𝗼𝗿𝘀𝗶 𝗱𝗶 𝗰𝗹𝗶𝗻𝗶𝗰𝗮 𝗽𝘀𝗶𝗰𝗵𝗶𝗮𝘁𝗿𝗶𝗮 𝗮𝗹𝗹’𝘂𝗻𝗶𝘃𝗲𝗿𝘀𝗶𝘁𝗮̀, un anziano professore ci aveva insegnato che una delle caratteristiche del pensiero psicotico- cioè, del modo di ragionare dei malati affetti da gravi disturbi come paranoia, schizofrenia, delirio, mania bipolare, e così via - era il “pensiero concreto”. Per questi malati, egli spiegava, le parole sono oggetti materiali, manipolabili come cera o creta (“o feci”, sogghignavano quelli più grandicelli di noi che avevano letto Freud). Degli oggetti materiali, le parole conservavano tutta la potenza e il “peso”: erano davvero più delle spade che potevano uccidere o conferire il titolo di “cavaliere”.


𝗣𝗿𝗼𝗽𝗿𝗶𝗼 𝗰𝗼𝗺𝗲 𝗶 𝗯𝗮𝗺𝗯𝗶𝗻𝗶 𝗲 𝘀𝗲𝗹𝘃𝗮𝗴𝗴𝗶 – 𝗱𝗶𝗰𝗲𝘃𝗮 𝗶𝗹 𝘃𝗲𝗰𝗰𝗵𝗶𝗼 𝗽𝘀𝗶𝗰𝗵𝗶𝗮𝘁𝗿𝗮 – 𝗶 “𝗺𝗮𝘁𝘁𝗶” danno alle parole un valore magico, una potenza sacra e misteriosa che trascende l’ordine umano. Quel professore (che sospetto fosse massone) ci spiegava che una cosa simile accade nelle nostre chiese, dove le formule dei sacramenti recitate dal sacerdote sono ritenute efficaci nel mutare la realtà degli oggetti (ad esempio la sostanza del pane e del vino eucaristici). Aggiungeva che è quello che pure ogni individuo superstizioso crede fermamente avvenga, ogni qual volta interpreta alcune parole o modi di dire come di sicuro auspicio (buono o cattivo).

𝗜𝗹 𝗹𝗶𝗻𝗴𝘂𝗮𝗴𝗴𝗶𝗼 𝗽𝗼𝗹𝗶𝘁𝗶𝗰𝗮𝗹𝗹𝘆 𝗰𝗼𝗿𝗿𝗲𝗰𝘁 𝘀𝗮𝗿𝗲𝗯𝗯𝗲, 𝗾𝘂𝗶𝗻𝗱𝗶, 𝘀𝗲𝗴𝗻𝗼 𝗱𝗶 𝘂𝗻 𝗴𝗿𝗮𝘃𝗲 𝗱𝗶𝘀𝘁𝘂𝗿𝗯𝗼 𝗺𝗲𝗻𝘁𝗮𝗹𝗲 𝗰𝗼𝗹𝗹𝗲𝘁𝘁𝗶𝘃𝗼, per cui ci si illude che usando lo schwa, i generi sessuali scompaiono; che ci si liberi da padri e madri, definendoli genitore 1 e genitore 2; che chiamare i disabili “diversamente abili” restituisca loro l'integrità fisica o mentale; che, definendo gli obesi “persone affette da ABCD”, la pancia scompaia. Insomma, la nostra società così avanzata- dove la scienza sfida i segreti dell’universo e la tecnologia non conosce limiti, - si reggerebbe, paradossalmente, su pratiche simboliche e credenze non diverse da quelle del vudù haitiano e del candomblé brasiliano.


𝗜 𝘀𝗲𝗴𝗻𝗶 𝗱𝗶 𝗾𝘂𝗲𝘀𝘁𝗮 𝘁𝗲𝗻𝗱𝗲𝗻𝘇𝗮 – 𝘀𝗲 𝗱𝗶 𝗰𝗶𝗼̀ 𝘀𝗶 𝘁𝗿𝗮𝘁𝘁𝗮 - 𝘀𝗼𝗻𝗼 𝗻𝗼𝘁𝗶 𝗱𝗮 𝘁𝗲𝗺𝗽𝗼. L’uso che la medicina sta facendo in questi anni (si pensi al COVID) di numeri, curve e statistiche è andato ben al di là il tecnicamente lecito. Gli psicologi della comunicazione sanno che i numeri oltre la prima decina sono tradotti emotivamente da tutti (matematici compresi) in termini di grandezze (molti, pochi, tanti, tantissimi, pochissimi, ecc.) e nei discorsi pubblici non vengono utilizzati per trasmettere informazioni reali, ma per convincere. Parole, poi, come esponenziale, logaritmico, indice, media, e così via, sono state e sono tutt’ora usate quasi unicamente per la loro capacità evocativa. Le stesse percentuali si prestano benissimo a suggestionare. Ad esempio, si sa bene che, per aumentare la percezione del rischio, basta tradurre le frazioni decimali in frequenze e valori assoluti, così come vale il contrario. Allo stesso modo, la maniera di presentare una percentuale influenza pesantemente l’adozione di un comportamento. La frase "𝘲𝘶𝘦𝘴𝘵𝘰 𝘦𝘷𝘦𝘯𝘵𝘰 𝘯𝘦𝘨𝘢𝘵𝘪𝘷𝘰 𝘩𝘢 1/10 𝘥𝘪 𝘱𝘳𝘰𝘣𝘢𝘣𝘪𝘭𝘪𝘵𝘢̀ 𝘥𝘪 𝘷𝘦𝘳𝘪𝘧𝘪𝘤𝘢𝘳𝘴𝘪" non ha lo stesso significato di "𝘲𝘶𝘦𝘴𝘵𝘰 𝘦𝘷𝘦𝘯𝘵𝘰 𝘯𝘦𝘨𝘢𝘵𝘪𝘷𝘰 𝘩𝘢 9/10 𝘥𝘪 𝘱𝘳𝘰𝘣𝘢𝘣𝘪𝘭𝘪𝘵𝘢̀ 𝘥𝘪 𝘯𝘰𝘯 𝘷𝘦𝘳𝘪𝘧𝘪𝘤𝘢𝘳𝘴𝘪": nel primo caso il destinatario è spinto a evitare il rischio, nel secondo è invitato a non preoccuparsi troppo.


𝗖’𝗲̀, 𝗽𝗲𝗿𝗼̀, 𝗮𝗻𝗰𝗵𝗲 𝘂𝗻’𝗮𝗹𝘁𝗿𝗮 𝗽𝗼𝘀𝘀𝗶𝗯𝗶𝗹𝗲 𝘀𝗽𝗶𝗲𝗴𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗱𝗲𝗹𝗹'𝗮𝘁𝘁𝘂𝗮𝗹𝗲 𝗱𝗲𝗿𝗶𝘃𝗮 𝘃𝗲𝗿𝘀𝗼 𝗶𝗹 "𝗹𝗶𝗻𝗴𝘂𝗮𝗴𝗴𝗶𝗼 𝗺𝗮𝗴𝗶𝗰𝗼", 𝗰𝗵𝗲 𝗻𝗼𝗻 𝗶𝗺𝗽𝗹𝗶𝗰𝗮 𝗻𝗲𝗰𝗲𝘀𝘀𝗮𝗿𝗶𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗲 𝗶𝗺𝗽𝗲𝗴𝗻𝗮𝘁𝗶𝘃𝗲 𝗱𝗶𝗮𝗴𝗻𝗼𝘀𝗶 𝗽𝘀𝗶𝗰𝗵𝗶𝗮𝘁𝗿𝗶𝗰𝗵𝗲. Ricordo un breve racconto di fantascienza che lessi da adolescente (credo fosse di Philip P. Dick, ma non ne sono sicuro: se qualcuno lo conosce, e ricorda l’autore, potrebbe essere così cortese di darmene conferma?) in cui si narrava di una persona, in un remoto futuro, che, avendo letto di un pianeta in una lontana galassia dove non esisteva il crimine, vi si recava, dopo avere investito tutti i suoi pochi averi in un viaggio lungo e pericoloso.

𝗚𝗶𝘂𝗻𝘁𝗼, 𝗽𝗲𝗿𝗼̀, 𝘀𝘂𝗹 𝗽𝗶𝗮𝗻𝗲𝘁𝗮 𝘀𝘁𝗿𝗮𝗼𝗿𝗱𝗶𝗻𝗮𝗿𝗶𝗼, 𝗶𝗹 𝗽𝗼𝘃𝗲𝗿𝗲𝘁𝘁𝗼 𝗶𝗻𝗰𝗶𝗮𝗺𝗽𝗮𝘃𝗮 𝘀𝘂𝗯𝗶𝘁𝗼 𝗶𝗻 𝘂𝗻𝗮 𝘀𝗲𝗿𝗶𝗲 𝗶𝗺𝗽𝗿𝗲𝘀𝘀𝗶𝗼𝗻𝗮𝗻𝘁𝗲 di omicidi, stupri, furti, truffe, e altri atti delinquenziali tra i più efferati. Stupefatto, chiedeva ad un nativo cosa mai fosse accaduto nel frattempo a quel pianeta noto a galassie di distanza per la sua totale assenza di criminalità. Veniva così ad apprendere che si trattava di un mondo da sempre affetto da tassi elevatissimi di criminalità (i più alti che in ogni altro pianeta) e da crimini così orrendi, intollerabili ed efferati che un giorno il governo decise che l’unica possibilità per contrastarli era quella di legalizzare tutti i comportamenti. Da quel momento il pianeta (pur senza che nulla cambiasse nelle condotte sciagurate dei suoi abitanti) diventò famoso per essere l’unico posto, nell'intero universo, dove si ignorassero non solo i crimini d'ogni tipo ma persino le parole per descriverli.

𝗔 𝘃𝗼𝗶 𝘁𝗿𝗮𝗿𝗿𝗲 𝗹𝗮 𝗺𝗼𝗿𝗮𝗹𝗲: 𝗶𝗼 𝗻𝗼𝗻 𝗽𝗼𝘀𝘀𝗼 𝗳𝗮𝗿𝗹𝗼 𝗼𝗿𝗮. Sono troppo impegnato a rileggere il mio post per verificare di non aver usato da nessuna parte un linguaggio che l’algoritmo possa giudicare non inclusivo - o addirittura discriminatorio e sessista - e censurarmi.


𝗧𝘂𝘁𝘁'𝗮𝗹 𝗽𝗶𝘂̀ 𝗵𝗼 𝗴𝗶𝘂𝘀𝘁𝗼 𝗶𝗹 𝘁𝗲𝗺𝗽𝗼 𝗱𝗶 𝗰𝗼𝗽𝗶𝗮𝗿𝗲 𝗽𝗲𝗿 𝘃𝗼𝗶 𝗹𝗲 𝗽𝗮𝗿𝗼𝗹𝗲 𝗱𝗶 𝘂𝗻 𝗺𝗶𝗼 𝘃𝗲𝗰𝗰𝗵𝗶𝗼 𝗮𝗺𝗶𝗰𝗼, l'ex-studente fuori corso Rodion Romanovič Raskol'nikov: “𝘜𝘯𝘢 𝘤𝘦𝘳𝘵𝘢 𝘱𝘦𝘳𝘤𝘦𝘯𝘵𝘶𝘢𝘭𝘦, 𝘥𝘪𝘤𝘰𝘯𝘰, [...] 𝘜𝘯𝘢 𝘱𝘦𝘳𝘤𝘦𝘯𝘵𝘶𝘢𝘭𝘦! 𝘎𝘳𝘢𝘻𝘪𝘰𝘴𝘦, 𝘥𝘢𝘷𝘷𝘦𝘳𝘰, 𝘲𝘶𝘦𝘴𝘵𝘦 𝘭𝘰𝘳𝘰 𝘱𝘢𝘳𝘰𝘭𝘦𝘵𝘵𝘦: 𝘤𝘰𝘴𝘪̀ 𝘳𝘪𝘱𝘰𝘴𝘢𝘯𝘵𝘪, 𝘤𝘰𝘴𝘪̀ 𝘴𝘤𝘪𝘦𝘯𝘵𝘪𝘧𝘪𝘤𝘩𝘦. 𝘜𝘯𝘢 𝘱𝘦𝘳𝘤𝘦𝘯𝘵𝘶𝘢𝘭𝘦, 𝘴𝘪 𝘦̀ 𝘥𝘦𝘵𝘵𝘰; 𝘥𝘶𝘯𝘲𝘶𝘦, 𝘯𝘰𝘯 𝘦̀ 𝘪𝘭 𝘤𝘢𝘴𝘰 𝘥𝘪 𝘱𝘳𝘦𝘰𝘤𝘤𝘶𝘱𝘢𝘳𝘴𝘪. 𝘚𝘦 𝘧𝘰𝘴𝘴𝘦 𝘶𝘯'𝘢𝘭𝘵𝘳𝘢 𝘱𝘢𝘳𝘰𝘭𝘢, 𝘣𝘦', 𝘢𝘭𝘭𝘰𝘳𝘢... 𝘮𝘢𝘨𝘢𝘳𝘪 𝘴𝘢𝘳𝘦𝘣𝘣𝘦 𝘱𝘪𝘶̀ 𝘪𝘯𝘲𝘶𝘪𝘦𝘵𝘢𝘯𝘵𝘦.” (F. Dostoevskij, 𝘋𝘦𝘭𝘪𝘵𝘵𝘰 𝘦 𝘤𝘢𝘴𝘵𝘪𝘨𝘰, Parte Prima, cap.4).



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